Terrafelice


                                                                                            


di Ilaria Palomba







 

"E questo", aggiunse il Direttore sentenziosamente "questo è il segreto della felicità e della virtù: amare ciò che si deve amare. Ogni condizionamento mira a ciò: fare in modo che la gente ami la sua inevitabile destinazione sociale".

Aldous Huxley - Mondo nuovo


 

Prologo 

 

Mi chiamo Diogene, come il cinico, il cane. Bisogna essere cinici per controllare le menti. Bisogna essere svegli e non farsi mai assalire da dubbi. Qui inizia la mia storia, come inizierebbe la storia di chiunque. In fondo non sono così diverso da chiunque. Sono solo più scaltro. Non manco mai di tatto e frasi di circostanza, ma non potrei neanche dirmi salvo da quell’intimo dolore che negli altri depreco. Sono un uomo normale, normalmente depresso. A nessuno permetto però di dirmi che sono depresso. Non crediate sia facile, non lo è affatto. Sono un incontaminato e, come ogni incontaminato, devo tenere botta, devo reggere il gioco, devo stordirmi di aperitivi e Adrenoplus per non pensare al futuro, al fatto che semplicemente il futuro non esiste più. Devo riuscire in tutto, non demordere mai. Sono la miglior psicoguida della Città 207, eppure, perfino io soffro di insonnia. Quando le luci dei grattacieli si accendono, attorniate da iperdroni, quando la Città sembra rimandare la potenza estrema della tecnica, io mi lascio andare a una sorda disperazione, una sorda e stupida disperazione, di cui nessuno mai deve sospettare. 

Mi chiamo Diogene e sono una persona nomale, anzi, iper normale e, come ognuno di voi, alle tre di notte mi sveglio con un attacco di panico, alle tre di notte, di ogni notte, penso che tutto questo potrebbe essere un sogno.

 

 

 

 


 

1.

 

La donna all’altro capo della scrivania ha i capelli corti, tinti di un castano ramato, parla con un accento del sud, a vocali chiuse e consonanti marcate, è molto magra e non mi guarda negli occhi. 

«Non mangio da mesi», dice. 

«Perché?»

«Mio marito se n’è andato».

«Non vedo cosa abbia a che fare il cibo».

«Non ho appetito. Ho lo stomaco chiuso. E poi la notte non dormo».

«Cosa sta cercando?»

«Voglio entrare».

«Mi dica il suo nome».

«Grazia di nome e Cutrolo di cognome».

«Quanti anni ha, Grazia, e cosa sa fare?»

«Cinquanta. A dire il vero non sono pratica del mondo delle idee, so tenere in ordine le cose, mi occupo delle faccende domestiche, quelle le gestisco bene».

«Mi dica qualcosa della sua storia personale».

«A sei anni mi hanno sbattuta in collegio, non avevo un gran rapporto con i miei, ci siamo per lo più ignorati. Le regole del collegio erano rigide, io faticavo a stare al passo con lo studio, non perché non mi piacesse ma le istitutrici erano delle despote. È stato lì che ho imparato a rifiutare il cibo. La cosa più importante era conoscere le buone maniere, stare sedute per bene a tavola, lavorare a maglia e tenere la camera in ordine. Non ho fatto amicizie, sono un tipo riservato».

«Adesso come vive?»

«Non ho altro che questo».

Sfila dalla tasca del giubbotto il ritaglio di una pagina in cui il Palazzo scrive che cerca capitale psichico. Le sue dita sono lunghe e avvolte da rughe che ne irrigidiscono i movimenti. Il volto è incavato, scarno. Gli occhi grandi e scuri come pozzi. Mi fa pensare a mia madre e mi ferisce l’idea di non ricordare molto di lei; mi torna alla mente l’odore del cardamomo, un tè speziato che preparava, o il suono flebile della sua voce da tabagista. Vorrei dire alla signora Grazia che ci sono due strade che l’attendono fuori dal Palazzo: una si chiama morte, l’altra follia. La signora Grazia non sa ancora nulla del ricovero dei dispersi. So cosa scriverò sul suo conto ma voglio darle un’ultima occasione.

«Come immagina il futuro?»

«Mi fa male vedere i giovani con gli occhiali connettivi sempre accesi, la tecnologia va arginata. Non esiste più nulla perché chi comanda vuole tenerci all’oscuro, siamo riprogrammati dagli ologiochi e da questi aggeggi che ci mangiano la vita».

Stringe un paio di o.c. verde rame dalla cornice fiammeggiante e lo schermo piatto di ultima generazione e lo rimette in tasca. Ha una giacca lunga a quadri, sembra venire da un’altra epoca. 

«Abbiamo bisogno di fatti, lei proponga e vedrò cosa fare» dico.

«Dobbiamo ridare autorità alla scuola, ai libri. Le pillole culturali rendono la gente ottusa».

«Si contraddice, non ha detto di aver smesso di mangiare per via delle punizioni delle istitutrici?»

«Loro esageravano, io dico che ci vuole un giusto mezzo, non di certo metterli in ginocchio sui ceci ma non va nemmeno bene così, un ragazzo oggi non può pretendere di imparare qualcosa ingoiando una compressa, nessuno legge più, nessuno segue le regole, tutti sempre in giro a ballare e non parlano più tra loro, lo ha notato?»

Scoppia in lacrime, le rughe sul viso si addensano e le guance si fanno ancora più pallide e scarne.

«La prego!».

Dico a Grazia che non posso assegnarle il posto ma la invierò da un’altra psicoguida per l’ennesimo colloquio. Mento. È il decimo colloquio di Grazia, il mio non idoneo significa ricovero.

Debbo consolarla, lo faccio spesso, mi alzo e vado dall’altra parte della scrivania, è la duecentottava persona che consolo in tutto l’anno. Mentre scrivo sul foglio non idoneo qualcosa in me va in frantumi, non si tratta di empatia ma di coscienza, al posto di Grazia potrei esserci io, potrei essere io quello che deve sciropparsi un anno di ricovero. Quando esci di lì non sempre torni indietro, c’è la possibilità di essere ulteriormente degradato dalla condizione di disperso a quella di inutile. Gli inutili vengono spediti nella stanza oblio e di lì a miglior vita. Li ammazziamo con garbo, gli somministriamo una dose letale di chetodarnotal, muoiono senza dolore. 

Sogno spesso la stanza oblio, sono steso sopra un letto bianco, aspetto la siringa. Un uomo incappucciato viene a portarmi l’ultimo caffè, domanda se desidero confessarmi, chiedere un ricalcolo vitae. Dico di no, arriva un’infermiera scarna e pallida, in abiti scuri e mi pianta l’ago in vena. A questo punto di solito mi sveglio madido, vado in cucina, bevo un caffè, stampo due biscotti e prendo l’Adrenoplus, esco e mi dico che va tutto bene. 

Nell’andar via sfranta dalle lacrime Grazia dimentica qualcosa sulla sedia. È un biglietto con un indirizzo. La inseguo sul ballatoio ma entra in telensore prima che io possa dirglielo. 

Il telensore è finora l’unico modello di sperimentazione di teletrasporto, nel momento in cui entri sei simultaneamente fuori e nel momento in cui sei fuori sei simultaneamente dentro, esistono più copie di te in due porzioni di spazio relativamente prossime, dal primo al centoseiesimo piano il telensore è capace di scinderti e ricomporti in modo da annullare l’esperienza della durata. È stata una del centocinquesimo a brevettarlo, le è bastato riprodurre su un disperso un esperimento precedentemente fatto sui topi: in porzioni di spazio limitato è possibile sdoppiare un corpo.


 

2.

 

Ascoltare i dispersi è dare voce a un’ombra, ce ne sono molte, e io mi perdo nei confini. Lo scrosciare dell’acqua nel lavandino del bagno, le tarme tra le ante dell’armadio, l’inclinarsi della macchia di umidità sul muro sono altrettante immagini dell’ombra. Lascio che queste epifanie si manifestino nei sogni, la veglia è un atto sacrificale, m’induce a piegare l’immaginifico al simbolico. Vedo circa tre dispersi al giorno, al termine dei colloqui raggiungo Mauro al centoseiesimo; il telensore ci mette meno di un secondo, prima di entrare alzo la testa: il luccichio del cielo all’imbrunire, nuvole crepuscolari vermiglie battono contro i vetri del Palazzo. La stanza di Mauro è di cristallo, la scrivania, i portafotografie, i quadri vuoti alle pareti, ogni oggetto è un filtro e noi ci specchiamo nelle rifrangenze, moltiplicati per cento, ci stringiamo le mani in cento specchi.

A volte penso che Mauro sia un automa, progettato per far impallidire tutti gli altri, dimostra dieci anni in meno, sarà la palestra o l’acido acutilonico. Quando entro nella sua stanza di cristallo sciorina un loquace sorriso, persino i denti sono di un bianco irreale, marmorei, gli occhi cerulei saettano. Usciamo in terrazza, sediamo su sdraio a righe sotto l’ombrellone bianco al bordo di una grande piscina trasparente e osserviamo il formicaio umano dalla ringhiera del piano centosei. 

«Strano, eh? Sono formiche» dico.

«Non è strano, è logico. Loro non sono nel Palazzo».

Ciò che è logico è disumano, un pensiero che viene dal passato, dal tempo prima del tempo, quando studiavo filosofia. Frugo nelle tasche e ritrovo il foglio spiegazzato della signora Grazia. 

«Cos’è?» dice Mauro.

«Un indirizzo».

«Fa vedere».

Glielo passo. Ripete a bassa voce la strada, non dev’essere da queste parti ma i suoi occhi cilestrini s’illuminano e un piccolo ghigno festoso gli irradia il volto.

«Andiamoci».

Mauro ha un pacchetto di sigarette speciali, non contengono tabacco ma procaina, un alcaloide della cocaina meno tossico e irrintracciabile nel sangue; ne fuma circa venti al giorno, me ne offre una ma mi vedo costretto a declinare, gli effetti della procaina sull’Adrenoplus potrebbero essere nefasti. 

Vista di qui la Città 207 sembra una galleria cromatica in miniatura, un luogo magico e spettrale in cui i flussi delle auto colorano le vie e l’aria sfavilla di un’estiva briosità.

«A volte penso a mia madre» dico.

«Ti manca?»

«Non lo so se mi manca, avrei voluto sapesse».

«Cosa?» dice Mauro.

«Chi sono».

«Nessuna madre lo sa, bisogna emanciparsi dalla loro memoria».

Mauro ha la certezza di conoscere una verità definitiva sulle cose e sul mondo, ha studiato ingegneria neuroscientifica e questo lo rende partecipe di una serie di cavilli tecnici a me ignoti, la sua fortuna è stata però l’uso sfrenato di una certa dialettica e del sillogismo assurto a sistema. Se la neuromodificazione detta ormai legge su ogni possibilità umanistica Mauro ne è il diretto emissario. 

«Che cosa faresti se scoprissi che un tuo dipendente assume antidepressivi?»

«Dovrei valutare».

«Cosa?»

«Se declassarlo o metterlo in aspettativa forzata. Sai di qualcuno che ne fa uso?»

«Ho dei sospetti su Valerio, l’ho visto ingerire delle pillole non culturali».

«Sarà stato un antinvecchiante».

«Probabile».

Mauro si alza, mi dà appuntamento a questa sera: passerà a prendermi, raggiungeremo il luogo menzionato nel biglietto di Grazia. 

 


 

3.

 

L’auto di Mauro è un’Arcavol di grande cilindrata, nera, con piccole ali ellissoidali, plana quel tanto sufficiente a scansare il traffico, si muove da sola grazie a dei sensori che imitano i neuroni a specchio, la donna che l’ha progettata lavora al ventiseiesimo, Mauro ha avuto una breve relazione con lei ma adesso sono amici. Non tutti possono permettersi un’Arcavol. Quando siamo in orbita dimentichiamo il tempo, la velocità annienta la durata, scansiamo gli autoveicoli comuni volandoci sopra, la strada si sbriciola in coni iridescenti, insieme agli alberi e alle luminarie, le stelle si fanno gallerie multiformi, attraversiamo i venti. Con l’Arcavol è semplice: digiti un indirizzo e lei ti ci porta, nessuno sforzo, nessuna fatica, niente traffico, mai.

Il luogo dell’appuntamento è un casermone di dieci piani, vecchio stile, una volta questo genere di palazzi era adibito ad abitazione e il quartiere in questione si chiamava Corviale. Oggi nessuno vivrebbe in un posto simile; dal pavimento di mattoni sconnessi traboccano blatte e resti di arbusti sradicati, il posto puzza di fumo ed è buio.

«Cosa veniva a fare qui?» dico.

«Una contrattazione immagino».

«Che intendi?»

«Alcuni dispersi per evitare il ricovero cambiano la loro identità con altri».

«E perché qualcuno dovrebbe voler andare al ricovero al posto di un altro?»

«Ci si stanca di vivere».

La versione di Mauro non mi convince, il luogo buio, stantio, ha l’aspetto di una grande catacomba e non sembra adatto a nessun genere di contrattazione. Seguiamo una fioca luce che illumina una scala, scendiamo i gradini, dal basso sale una nenia, musica esotica, tamburellare ossesso, coro di voci femminili. 

Il lucore giallastro si fa più chiaro e dentro la luce si agitano convulse dieci danzatrici, i veli coprono e scoprono lembi di carne. Di fronte a loro scalpita un folto gruppo di uomini. La ballerina al centro ha una chioma di riccioli inanellati del colore del legno e occhi scuri come chiodi, un trucco fittissimo, grandi seni, un capezzolo sporge dall’esiguo vestito rosso; i fianchi ondeggiano in una sapiente danza orientale. Odore di brace, fumo. Mauro, immerso nei vapori, cerca di liberarsi dalle braccia delle danzatrici. La musica si interrompe bruscamente e le ragazze si fermano in una porzione di spazio illuminata, aspettano che uno degli uomini le raggiunga. La prima ballerina guarda fisso negli occhi Mauro e lui, incosciente, ipnotizzato, si ferma con la testa al muro.

Gli uomini e le ragazze si allontanano, nella stanza vuota restiamo io, Mauro e la donna vestita di rosso. La luce si fa ancora più fioca e perdo il controllo dei sensi. Una nebbia fittissima mi grava sugli occhi. Afferro per un braccio la danzatrice.

«Chi sei?» dico.

«Nessuno» dice.

«Che hai fatto al mio amico? Fallo tornare in sé».

«Non posso».

«Che significa non puoi? Liberalo!»

Mauro si perde nei fumi, due donne lo accompagnano oltre una porticina verde e io resto preda dell’oscura danzatrice e delle esalazioni da narghilè. La luce, sempre più fioca, non lascia intravedere che lembi di carne in chiaroscuro. 

«Siediti» dice lei. «Qui nessuno verrà a cercarti».

Mi viene difficile placare la fame d’aria, mi accade spesso nei momenti di tensione di sentire i bronchi stringersi e di non riuscire ad allontanare l’angoscia di morte, una sensazione minacciosa e tetra ottunde le vie respiratorie e mi lascia in balia dei miei mostri.

Apro gli occhi in una nuova stanza, costellata di mandala incastonati alle pareti, con la danzatrice accanto che mi offre un tè al cardamomo.

«Qui mi chiamano Sibilla» dice.

«Dov’è Mauro?»

«L’hanno riportato sopra, questo non è un luogo adatto a voi».

«Dove siamo? Chi erano quelle donne?»

«Come avete trovato questo posto?»

«Era sul biglietto di una dispersa».

«Ha un nome?»

«Grazia. Cosa doveva fare qui?»

«Dimmi di te».

«Mi chiamo Diogene,» tendo la mano «posso sapere con chi sto parlando?»

«Non lo so, Diogene. Non riesco a capirlo ormai da molto tempo. Io posso solo dare agli altri una possibilità».

«Una possibilità?»

«Sì, un’alternativa».

«A cosa?»

Alza il mento e accenna una risata di sufficienza. La sua stretta è fredda, ferrosa. Perde lo sguardo nelle geometrie del mandala e si lascia andare a un sospiro malinconico. 

«Tu però non ne hai bisogno».

La sua pelle è liscia, sudata, gli occhi velati e distanti, non sembrano neanche vivi.

4.

 

Sibilla mi spinge fuori e mi ordina di non tornare, dimenticare, lasciare lei e quel luogo assurdo nell’oblio. Dice che dimenticherò, avrò solo sognato, anche Mauro mi convincerà sia stato un sogno. 

Le prime luci dell’alba asciugano la notte, la strada a ritroso è lunga, sento abbaiare i cani, i miei o.c. sono scarichi e non posso mappare il percorso. Non ho con me l’Adrenoplus. Cammino per le viuzze vuote in cui il vento è un sibilo e le ombre dei cani figure demoniche.

Mi guardo le mani e non riesco a fermarle. La terra, tutta, trema. Cammino e il cemento si sgretola, pezzi di mattoni precipitano trascinati dal vento. Entro in un casale, prendo il telensore, il palazzo si sgretola e resto in un cubo di vetro nel cielo finché anche il cubo non si frantuma e precipito giù fino allo schianto. Non lo vedi mai lo schianto, ti riprendi sempre un attimo prima. Non è reale. La strada è quella di prima: un sentiero scosceso di pietre e ciottoli, non sta franando e io non sto precipitando.

Avevo vent’anni, l’insonnia mi tormentava, leggevo in modo frammentario e non trovavo pace. Provavo e riprovavo a scrivere ma venivano fuori frasi spezzate. I primi anni di università furono un disastro, non riuscivo a dare esami e le donne mi evitavano. Al decimo giorno di insonnia bevvi tre bottiglie di whisky e andai in coma etilico. Mi svegliai in pronto soccorso e mia madre mi portò via, all’epoca poteva farlo, per mandarmi da uno specialista privato. Al Palazzo avevano già interdetto la psicoterapia ma qualche luminare resisteva indomito: conobbi il dottor Fiore e mi diagnosticò una depressione maggiore dovuta al fatto che mio padre fosse sparito quando ero molto piccolo, depressione e sindrome dell’abbandono, terapia consigliata: Adrenoplus. Mia madre disse: «Questo è un segreto. Nessuno deve sapere che sei in cura. Le cose stanno cambiando, Diogene, qui la gente che soffre viene mandata al ricovero.» M’invogliava a studiare la storia, a capire cosa fosse accaduto nei secoli trascorsi: il significato della parola lager, della parola foiba. Mia madre sosteneva fossimo prossimi a una nuova dittatura, il suo fervore politico era tutto proteso a combattere il pensiero unico scientifico in difesa delle discipline umanistiche che lei definiva semplicemente umane. 

Vedo ancora il dottor Fiore una volta a settimana, non ho smesso di prendere l’Adrenoplus, e a maggior ragione dopo la morte di mia madre; senza di lei ogni mio desiderio si perde nell’incommensurabile flusso degli eventi. A parte Mauro e qualche ballerina di lap-dance sono solo e poco incline a considerare la vita una prospettiva plausibile.

La strada si apre a un principio di civiltà, sono vicino al centro commerciale D112, luci sfavillanti e sesquipedale scritta in rosso, palloncini attaccati alle finestre. Riconosco la città. E arrivo a casa. 

Il frigo è vuoto, la stampante 4 D si è rotta ieri, ripararla costa troppo. Nei rettangoli laterali di SocialMind svettano pubblicità di cose che potrebbero interessarmi: pillole culturali, capsule per film porno, latte, brioche, müeslei, pizza, patate, salsiccia, pane integrale, mandarini. Aggiungi al carrello, aggiungi al carrello, aggiungi al carrello; aggiungo tutto ciò che l’algoritmo consiglia. In quattro minuti un iperdrone vibra fuori dalla finestra come una mosca in gabbia. Apro i vetri, entra e sgancia la cintura che separa uno dei due capi metallici, posso ritirare la spesa. «Grazie Diogene! Il tuo credito ammonta a 850 bor e 11900 dineri». 

«Grazie amico metallico». 

Schiude le ali e plana controvento. Qualche cretino li considera una nuova forma d’intelligenza ma in verità sono solo uccelli metallici, robot volanti, cose, in sostanza. Gli iperdroni sono stati potenziati nel 2035, vengono dagli storici droni: il primo è stato inventato nel 1849 in Australia; erano dei palloni senza pilota gravidi di bombe, in quel caso usati per attaccare Venezia. Con il tempo furono perfezionati fino ai piccoli droni, per lo più telecamere volanti con varianti per uso bellico, ma noi ci fregiamo di aver brevettato gli iperdroni, di forma umanoide e capaci di interagire, svolgere le quotidiane pulizie domestiche, prendere le ordinazioni su SocialMind e portare la spesa a domicilio.

La storia mi è sempre piaciuta, mi trovo spesso a riflettere sul senso ultimo di quanto sia accaduto, la perdita di contatto con il sacro, per esempio, è sintomo di una civiltà che ha barattato l’anima con le neuroscienze. Sui muri della Città 207 campeggia la scritta restiamo umani, ha a che fare con il ricovero, con le voci che circolano sul ricovero. Umano è un concetto astratto, le tecnologie ci hanno ingannati sulla nostra insignificanza, l’uomo non è che un animale corrotto e nonostante tutto insegue un ideale dell’io inarrivabile. La perfezione, è questo il cruccio di Mauro, perciò anche noi incontaminati ci consegniamo alla magia della tecnica, che si tratti di procaina, antidepressivi o ologiochi.

Prima delle città numerate esistevano le capitali, questo luogo si chiamava Roma. Prima che Mauro prendesse in gestione il Palazzo esisteva una cosa che chiamavano parlamento, mia madre ne faceva parte ma un giorno perse il lavoro, accusata di cospirazione contro lo Stato. 

Durante il grande terremoto lei morì, un Tir le tagliò la strada e lei, non guidava un’Arcavol ma una banale macchina da corsa, finì contro il guardrail e giù nella voragine. Il suo corpo non è mai stato ritrovato. Mia madre credeva nella res publica, era stata lei a spingermi a studiare filosofia, voleva insegnarmi a comprendere la profondità dell’esistenza, a occuparmi di etica e metafisica, eppure sovente ripeteva: «Tu non sei fatto per il potere, devi costruire un’alterativa». Quando abolirono i libri e introdussero le pillole di cultura, disse: «Puoi anche lasciare l’università, così non serve a nulla».

Mi sarebbe piaciuto vedesse cosa sono diventato. «Un alienato» avrebbe detto probabilmente. Ma non un disperso. Quando mia madre parlava delle sue origini io restavo ad ascoltarla come si ascolterebbe un incantesimo, era salentina e mi chiedeva di studiare le tradizioni della sua terra, di non dimenticare. Sosteneva che la memoria è importante per non ripetere certi errori ma considerava anche la storia un ciclo che sempre si ripropone. 

 


5.

 

Erro nel sostenere di non aver avuto neppure una donna a esclusione delle spogliarelliste, ce ne sono state almeno due degne di nota. Io e Mauro andavamo spesso nei distretti qualche tempo fa, China Town, Afro Town, Arabia Town, tutti luoghi di turismo sessuale ai quali si può accedere con gli o.c.

Le cinesi mi piacevano per via dell’elasticità pelvica e poi sono donne capaci di silenzio, cosa ormai rara. Prima però ho avuto una storia di sei anni con una tal Alicia che avevo conosciuto per mezzo di un algoritmo, una funzione installata su SocialMind: è un nodo presente nella rete che stabilisce il grado di compatibilità esaminando tutti i dati condivisi e facendo un calcolo computazionale combinatorio in grado di prevedere gli esiti delle relazioni. L’algoritmo sosteneva fossimo fatti per stare insieme ma che sarebbe durata relativamente poco. Lei era una ragazza della facoltà di filosofia, aveva perso come me molti anni di università; mentre io cercavo di scrivere lei cercava di entrare nei cast cinematografici, faceva provini su provini, portava con sé copioni e li leggeva ai tavoli del bar universitario. Una memoria formidabile sporcata da un difetto di pronuncia che appesantiva le consonanti calcandole in modo eccessivo. La nostra era un’avventura disperante ma dopo la morte di mia madre provammo a fare sul serio. Avevo rimpiazzato la figura materna con l’immagine di Alicia, una donna piena di ombre: magra, alta, lunga chioma mora, rossetto vermiglio, labbra carnose e una flemmatica pazzia. Litigavamo spesso a causa della sua facondia ma avevamo un accordo: poteva vivere da me, svuotarmi il conto online, in cambio doveva essere assertiva, amarmi e scoparmi. 

Quando venni assunto Mauro disse: «È una sanguisuga. Liberatene. Le donne vanno prese per i fianchi, ingroppate e scaricate». Mauro ripete spesso che l’amore è una malattia dell’anima e si propone di estirparne ogni traccia. 

Per Alicia provavo una forma di gelosia morbosa. La paranoia non mi dava tregua. Ali si era trasferita in Città per studiare e cercare di diventare incontaminata. Ci siamo laureati insieme, a trentadue anni, dopo aver perso tempo nel balordo tentativo di essere riconosciuti dallo show business. Prese il massimo dei voti, facemmo un corso accelerato in psicoguidologia e prese il massimo anche lì, voleva fare un colloquio per entrare al Palazzo come psicoguida. Avevo deciso di sposarla, l’avrei fatto comodamente dopo averle impedito di realizzarsi. Sibilla mi ricorda Alicia, i loro occhi sono della stessa tonalità di nero. 

Dunque, io vengo assunto e Alicia torna ai suoi sfortunati provini. L’ho seguita diverse volte per strada, non ho trovato quel che cercavo; sono entrato nel suo profilo una sera che aveva lasciato gli o.c. sulla scrivania, ho trovato una conversazione ambigua su SocialMind tra lei e un sedicente regista della sua terra d’origine, e c’erano tracce di un paio di oloincontri. Al suo rientro ho buttato per terra i suoi o.c., li ho spaccati, l’ho presa a schiaffi. A volte i ricordi sembrano sogni, il rumore del vetro che frange e le urla, i singhiozzi, spezzoni di una vita che non mi appartiene più. L’ho mandata via, non ci siamo visti per alcuni mesi ma tenevo traccia della sua presenza in rete. Un giorno ricomparve, un paio di o.c. si acquista con pochi dineri. Le scrissi: «Vediamoci e parliamo». Non voleva saperne. L’ho raggiunta nell’ologioco e siamo andati in cima a un monte, abbiamo trovato una torre, ci siamo entrati, abbiamo salito i gradini e guardato la valle sfolgorante nella notte, le luci dei grattacieli sembravano lanterne. Le ho detto: «Sfilati gli occhiali e vieni da me». L’ha fatto. Avremmo dovuto sposarci, mi ero comprato un abito nuovo e stavo per raggiungere il luogo designato per il rito ma cambiai idea. Forse l’ho fatto per sfuggire al destino o agli algoritmi. Da allora di lei non so nulla. 

Ho perso quasi tutte le donne a causa della gelosia. Gli exploit erano alimentati dalla percezione della mia insignificanza, riconoscevo in loro esseri superiori ai quali non ero destinato, così come non ero destinato al successo. Non ho un reale talento per la psicoguidologia e non ho nessun interesse per gli altri. Ogni mio sentimento si pasce di insidia, ambivalenza, sfida. So di essere simile alle macerie dei miei incubi, un palazzo in mille pezzi.

Torno a casa, angustiato dalla solitudine, un senso di vuoto mi opprime, ripenso a Sibilla e non sono certo si sia trattato di un incontro reale, la considero una visione smerigliata, un inganno della mente, un flash degli o.c.

È giorno. Mi affaccio al balcone che dà sul cortile interno, Valerio Coralli gioca con sua figlia, la moglie resta tutto il giorno sul divano, dal balcone posso vederla. La bambina segue il padre lungo il viale degli oleandri e insiste per essere portata al Palazzo, strilla, strepita. Valerio la prende in braccio e la riporta a casa, esce una seconda volta e guarda in direzione del mio balcone. Lo saluto, risponde, seguita a fissarmi e calca l’asfalto con passi marziali. 

Questa casa è diversa dalle altre, non è di cristallo, è antica, i mobili sono in ebano e possiedo ancora libri di carta, sono uno dei pochi in città a conservarne delle copie, sono cimeli a cui tengo. È una casa modesta, una stanza di sessanta metri quadri senza porte con un grande futon al centro e una scrivania in ebano dove lascio gli o.c., la libreria, un divano e un piccolo tavolo di vetro. C’è il parquet sul pavimento, le pareti un po’ scheggiate, le finestre ampie, una larga balconata con un colonnato in pietra. 

Prima di tornare al lavoro inforco gli o.c., accendo il sensore, entro nel database del Palazzo e frugo nelle informazioni di Grazia Cutrolo, mi preme sapere cosa potesse cercare una donna di cinquant’anni in un luogo come quello. Il suo nome non c’è: sparito dai database. Gesto frugale da parte mia non averla cercata subito per restituirle il biglietto.

 


 

6.

 

Valerio mi aspetta terreo all’entrata del Palazzo, lo sguardo gravato dall’inquietudine. Ha l’odore del sonno, intendo, l’odore che si appiccica alla pelle durante le notti insonni quando fiato e sudorazione s’inacidiscono.

«Come ti è saltato in mente?» 

«Cosa?»

«Non fare lo stronzo».

«Non ci sarebbe nulla di male».

«Non ho mai preso antidepressivi».

Faccio tre passi, cerco di attraversare l’atrio, supero la fontana cromatica (l’acqua che sprizza di rosso, giallo, verde e blu è una proiezione olografica), raggiungo il telensore. Valerio mi mette una mano sulla spalla.

«Mauro è venuto nel mio ufficio ieri e ha preteso un controllo».

Mi volto, sorrido amaramente.

«Ma tu non hai nulla da nascondere».

«Purtroppo mancano tre famiglie all’appello questo mese, è un lavoro che avrei fatto nei prossimi giorni ma Mauro ha attribuito la mancanza alle mie condizioni di salute, mi manda in aspettativa forzata per due settimane».

Chiamo il telensore e guardo verso l’alto per non incrociare i suoi occhi.

«Non può che giovarti una vacanza».

«Diogene,» mi scuote più volte «non posso permettermi due settimane senza stipendio».

Mi appello all’amicizia di Mauro e alla sua benevolenza, Valerio è un isterico, ha sempre sbraitato per certe cretinerie. D’accordo, sono stato infame e probabilmente si è trattato di una calunnia ingiustificata ma al suo posto sarei felice di starmene due settimane a casa.

Sono una carogna e in questo mio degradarmi gioisco furente, ci vuole abilità anche per l’inganno. Talvolta mi diverto a praticare sottili esperimenti umani, questa faccenda di Valerio, per esempio, vale come verifica, volevo conoscere la reazione di Mauro di fronte a un dipendente insano. Valerio non è insano, è la persona più ordinaria che possa esserci ma lavorare nell’ufficio recupero crediti è arduo, ci si trova a dover prendere decisioni drastiche e non sempre si può far valere il proprio senso di equità. Quando devi pignorare una casa o rovinare una famiglia non so come tu possa pulire la coscienza e considerarti incontaminato.

Mauro è stato lungimirante nelle assunzioni, ha preso tutti casi estremi, marginali, isterici, persone al limite del collasso psichico. Solo così si può evitare di sgarrare, il terrore di tornare a essere fuori riesce a dominare sull’impulso alla rivolta. Mi fa orrore l’idea di poter ricominciare a vivere come prima; il fuori non è un luogo ma un concetto morale. Esiste sempre un fuori e la mia vita non è altro che un susseguirsi di esperienze d’emarginazione. Mauro è cento carati d’oro, essere cosciente del suo valore salvifico mi dispensa dal desiderio di buttare giù il Palazzo e le sue leggi. 

Nessuno dice che abbiamo subito un colpo di stato. Nessuno parla della perdita di memoria, delle persone scomparse dai database e del periodo di vuoto di cui stento a credere qualcuno sappia più di me. No, non mi lamento, vedo il Dottor Fiore, parliamo della mia insoddisfazione, della mia rabbia. L’Adrenoplus blocca le ideazioni suicide, la morte non è che un ricordo di giovinezza.

 


 

7.

 

La stanza in cui lavoro richiama la cabina di comando di un cargo, l’ha arredata Mauro, dice che le psicoguide sono traghettatori, capitani di avvento.

La donna che ho di fronte è molto giovane, bionda, vestita di blu, viso rotondo, roseo e tristi occhi cilestrini, braccia segnate da abrasioni, cicatrici di tagli longitudinali. 

«Che hai fatto?»

«Un gatto». 

Un sorriso amaro, conosco quei segni.

«È troppo presto, sei troppo giovane per morire».

«La vita mi annoia».

«Allora perché sei qui?»

«Voglio abbandonare gli studi e lavorare».

«Ma se sei una bambina!»

«Ho diciotto anni».

Sospiro e vado a stampare un caffè.

«Vuoi?»

«Mi fa male il caffè».

Punto la stampante di bevande gassate.

«Un’aranciata?»

«Va bene».

Verso l’aranciata in un bicchiere di plastica trasparente e gliela porto.

«Tieni. Allora, bambina, sentiamo, che turbe hai?»

«Ho deciso di provare, se non mi volete neanche qui mi faccio fuori, ma non sentirti ricattato».

«Fai del sarcasmo? Dopo questa frase dovrei chiamare le guardie e spedirti al ricovero».

«Ti prego, preferirei andarmene in santa pace che farmi uccidere da quelli. Ascolta, Diogene, io non esisto».

«Che significa non esisti?»

«La mia vita, tutto quanto, è un bluff».

«Vuoi un consiglio? Torna dai tuoi genitori. Non hai bisogno di me».

La ragazza fa per alzarsi, i suoi occhi gelidi mi trafiggono.

«Va bene, ma non avermi sulla coscienza».

Raggiunge la porta.

«Aspetta» dico. «Non mi hai detto neanche il tuo nome».

«Diana».

«Bene».

«Non ho i genitori, mio padre mi ha abbandonata quando ero piccola e mia madre è una persona orrenda».

«Scusa?»

«Hai capito bene, Diogene».

So che non dovrei mischiare gli affari privati con il lavoro ma non riesco a frenarmi.

«Anche mio padre mi ha abbandonato».

«Bene, abbiamo una cosa in comune».

«Sai nulla del tuo?»

«Nulla».

«Neanche il nome?»

«No».

«Va bene, sei dentro».

«Sono dentro?»

«Sicura di avere diciotto anni?»

«Sì».

«Però devi darmi una risposta, sforzati, una sola risposta valida».

«Su cosa».

«Sul futuro».

Ride, butta indietro la testa, i capelli rifulgono chiarissimi.

«Grazie», dice. 

Accende una sigaretta di procaina, gliela tolgo di bocca e la spengo al rubinetto.

«Non si fuma in ufficio».

«Che moralista».

Sorseggio caffè in ghiaccio con latte di mandorla, è artificiale, ci nutriamo esclusivamente di prodotti di laboratorio, i più fortunati non devono comprarli, possono fabbricarseli con la stampante 4D. 

Diana guarda il timone grigio e la finestra oblò.

«I tagli li ho fatti quando l’uomo con cui stavo si è innamorato della mia migliore amica. Era un artista, un pittore. Siamo andati in vacanza insieme e loro se ne stavano tutto il tempo su uno scoglio a discutere di arte. Lei non è come me, è sveglia, è scaltra, ha un altro tipo di corpo. La odio. Volevo uccidermi, so di essere interiormente guasta».

«Sei troppo giovane, questi pensieri poi passano, un giorno t’innamorerai e la penserai diversamente».

«Non credo ne valga la pena».

«A diciotto anni?»

«Già».

«Va bene, ora dimmi qualcosa sul futuro».

«Voglio sia fuori di qui».

«Che intendi per fuori?»

«Fuori dalla Città 207. Voglio tornare alle nazioni, alle regioni, alle città con un nome, non ne posso più di questo mondo ovattato dove tutti fingono di divertirsi e nessuno sa più chi siamo».

«Diana,» tossisco, «non puoi andare dal direttore di un’azienda a dirgli che vuoi tornare ai tempi in cui lui e la sua azienda non esistevano, capisci?»

«Capisco».

«Devi pensare a qualcosa che sia coerente con il mondo in cui viviamo».

Questa ragazzina mi ricorda così tanto me da procurarmi un senso di smarrimento. Coloro che diventano incontaminati inventano delle applicazioni algoritmiche. L’orizzonte della comunicazione va per la maggiore, tutta l’arte può ridursi a comunicazione. Intensificare le già turbolente relazioni tra i sessi è un’idea vincente. Adesso che Mauro vuole mettere al bando l’amore come malattia dell’anima avremo ancora maggior bisogno di relazioni fisiche, votate al consumismo dei corpi. Le relazioni seguono tre impulsi: desiderio, autoconservazione e carriera. Gli algoritmi messi a punto dai nostri collaboratori perciò ne intensificano il flusso. Uno dei più insigni incontaminati ha progettato i distretti (etnici, per variare caratteristiche somatiche della partner occasionale) e un altro l’ha superato progettando le sale. Il palazzo ne contiene almeno dieci che io sappia. Dopo Alicia ne divenni assiduo frequentatore, nella sala sette conobbi Miranda: tipino scaltro, pelle e ossa, capelli viola, tatuata, dieci piercing sparsi per il corpo, ai capezzoli e al clitoride per esempio; culo a mandolino. Miranda era una poetessa, non solo una danzatrice. 

Nelle sale hai l’impressione di rispettare la volontà delle donne. Le ballerine non sono prostitute, non sono obbligate ad andare a letto con i clienti. Tu paghi per la loro compagnia, un’ora, due, un giorno, una settimana. Loro possono scegliere di non scoparti. È un altro modo per selezionare i dispersi, chi non riesce a fare sesso è evidentemente disperso o inutile e va ricondizionato. 

Con la salace Miranda non ebbi impicci, ci piacemmo. Facemmo l’amore in sala sette davanti ad altri, le avevo messo cento dinari nel bordo del perizoma e mi era salita addosso. Quando tornai a casa non riuscii a schiodarmi dalla visione del suo corpo, della sua bocca, dei suoi seni piccoli, sodi; ritornai in sala sette, lo facemmo ancora, lentamente, con delicata cupidigia. Andai via e tornai di nuovo e lo facemmo fino al giorno dopo. 

Pagai tre giorni del suo tempo e la portai in una spiaggia di ciottoli a un paio d’ore dalla Città. Mauro mandò Valerio a cercarmi. Sui database del Palazzo si era automaticamente aggiornato il mio profilo con tanto di cifre spese per Miranda. La pagavo, ma eravamo innamorati, aveva scritto delle poesie per me. Mauro decise di mandarla nella Città 3600, in quella che un tempo era l’Australia. 

«L’ho fatto per te» disse. «Ti avrebbe prosciugato».

E addio Miranda.

«Un’idea ce l’ho» dice Diana. «Nel secolo scorso due matematici, Chris Danforth e Peter Dodds, riuscirono a misurare il livello di contentezza della popolazione di un paese, io vorrei farlo con gli abitanti della Città 207. Voglio ideare un’applicazione in grado di esaminare ogni dato di SocialMind e creare un algoritmo capace di prevedere quanti di noi hanno una quantità più alta di serotonina, endorfina e dopamina nel sangue, in modo da favorire incontri tra persone votate alla gioia e all’euforia, ti sembra abbastanza coerente con lo spirito dei tempi?»

«Genio». 

È buffo: noi, che siamo gravati dal fardello della melanconia, lavoriamo per un mondo di stolidi euforici, ebeti automi condannati a una gioia disperata. È bellissima Diana mentre cede alle lusinghe del potere, nello sguardo solo rovine.

 


 

8.

 

 

Erano due le attività che prediligevo come svago: il sesso e la danza, quando dico danza non intendo nulla di coreografico ma dissipazione, fino a qualche anno fa sarei stato un assiduo frequentatore delle discoteche, ora abbiamo le basi, ne andavo pazzo finché un giorno non ebbi l’idea di togliermi gli o.c.
Ero in un’area proiettiva. Entrai in una piattaforma, mi diedero un paio di cuffie e indossai gli o.c. Sul lato destro delle cuffie c’era un pulsante con cui cambiare musica, la traccia base era psytrone, una cantilena ossessa di bassi e chiodate elettroniche, a me piaceva la musica IDM, ascoltavo roba del secolo scorso e danzavo felice.
Attraverso la regolazione degli o.c. decisi la location e l’ora, in passato avrei scelto scogliere o cateratte di ruscelli ma avevo voglia di mare. Era un momento di pace, la danza, attraverso i sensori modificavo i corpi degli astanti. Esperienza straordinaria trovarsi nell’aurora di una spiaggia tropicale con donne autoctone senza reggipetto, tre ore in orbita nel mio personalissimo paradiso artificiale.

Per via di una curiosità morbosa sfilai occhiali e cuffie. Mi trovai inebetito in un pezzo di cemento, immerso in centinaia di corpi, per lo più sudati, nessuna menade nuda. Un nugolo di imbecilli addensati, appiccicati l’un l’altro, vestiti come manga, si dimenavano nel silenzio, e il silenzio era carne fradicia. Rimasi un’ora a guardarli ballare, sfregarsi accalcati. Smisi di frequentare le basi, e fine delle danze.

Siamo l’esternazione della solitudine, abbiamo perso la fede in Dio ma recuperato una stolida e cieca credenza nell’illusione. Io e Mauro andiamo spesso a bere sulle terrazze e non c’è nessuno capace di guardarsi intorno, tutti schermati dietro o.c., i più fanatici non usano neanche più un oggetto, si sono fatti impiantare un sistema operativo direttamente nei neuroni (S.O.I.N.), sono cyborg. Li vedi fissare il vuoto inebetiti, e stanno chattando telepaticamente con dieci persone. Alcuni poi si dissociano, diventano dispersi, non reggono l’impatto della tecno-carne. Qualcuno si perde in un passato mitologico e sente la mancanza di Dio. 

Non molto tempo fa sono entrato nella Basilica di San Paolo e al posto del parroco sull’altare c’era un programmatore informatico, diceva: «Intorno a me risplendono i bit e i bit sono con me. I dati, il codice, le comunicazioni». Allargava le braccia indicando i quattro punti cardinali. In ginocchio dieci adepti collegati telepaticamente vagolavano per mondi virtuali mentre io mi soffermavo sui mosaici. Ci vuole un atto di fede per farsi impiantare un software nel cervello, quelli che lo fanno sanno che non potranno mai tornare indietro. Mai più sapere cosa sia la realtà.

Mauro preferisce mantenere un distinguo tra reale e immaginario, è il segreto del suo potere, la facoltà di controllare il reale senza stordirsi con il possibile. 

A causa di questa gente virtuodipendente le librerie, i teatri, i cinema e i musei si sono estinti, tutto può esserti impiantato nel cervello, se vuoi leggere un romanzo prendi una pillola culturale, i film puoi spararteli nel sonno, al posto dei sogni, se vuoi vedere un museo ci sono le visite guidate in 4D. La cultura è un atto virtuale. Una volta, parlo di una ventina d’anni fa, erano diventati tutti scrittori, non c’era uomo o donna, anziano o bambino che non avesse il famoso romanzo nel cassetto, e non c’era uomo, donna, anziano o bambino che non riuscisse a pubblicarlo. Le librerie erano invase e anche gli e-book erano diventati una tale quantità da intasare i sistemi operativi. Così i libri sono stati sostituiti dalle pillole, il cinema dai sogni preconfezionati, il desiderio di scrivere ben presto è stato sostituito dall’impulso a spararsi un sogno con una trama accattivante. Se sei povero ti accontenti delle basi, roba economica, alla portata di tutti. Mi c’è chi preferisce conservare i vecchi supporti. Ho un lettore dvd e uno stereo, la musica che ascoltano oggi, la psytrone, mi dà il voltastomaco, sento ancora Vivaldi e ho dei libri veri, di carta. Esiste di volta in volta un piano più alto a cui nascondere la verità sul proprio modo di pensare e di vivere. 

La parola prodigio s’impossessò di me fin dalle elementari, scrivevo temi pazzeschi. Mia madre mi metteva in guardia: «Ricorda, Diogene, noi non siamo nei piani del potere ma vuoi mettere la libertà di poter conoscere le cose per ciò che sono?»

Quando frequentavo la scuola progressiva esistevano ancora le città, le regioni, le nazioni, abitare a Roma aveva un senso e non era interscambiabile con abitare a Parigi, New York o Hong Kong; Mauro frequentava la mia scuola, io ero in quinta, lui in seconda, avevamo la stessa insegnante di italiano, fu lei a definirmi prodigio. E il padre di Mauro invitò a cena me e mia madre.

Fu la prima casa trasparente che vidi, sembrava di essere in un cubo di plexiglass, era imbarazzante andare in bagno e immaginare che chiunque fuori potesse vedermi. 

«Non ti vedono, i vetri sono trasparenti per noi ma fuori sono arcobaleno» disse la signora Viale: Helen, una tedesca anoressica, con aria trascesa.

Se ti guardavi intorno avevi l’impressione che tutto fluttuasse, sembrava di essere sott’acqua o sospesi nel vuoto, un duecentesimo piano non sorretto da fondamenta, dalla balconata della cucina si toccavano le nuvole.

Il padre di Mauro aveva i capelli scuri e la barba, era un broker, a tavola parlava di azioni bancarie e moneta bor (una moneta che esiste solo su SocialMind). Quando lo vidi, quando vidi i suoi occhi chiari e assenti, una bordata mi percorse il braccio sinistro, pensai di restarci secco. Mi fece l’occhiolino come volesse comunicarmi telepaticamente qualcosa che non compresi ma avevo voglia di fuggire o puntarmi una pistola alla tempia.

Helen era concentrata sugli attrezzi, correva in una bolla sospesa per aria, scendeva e si metteva a stampare roba vegan, ma non mangiava. Ci sedeva accanto e ci guardava mangiare. Mia madre la osservò a lungo e tirandomi per la camicia disse: «Povera imbecille».

Vestivano di bianco, questa tradizione Mauro l’ha conservata, al Palazzo vestiamo di bianco, indossiamo lunghe tuniche termiche, cambiano temperatura a seconda della stagione, fresche d’estate e calde d’inverno, ci dispensano dall’uso dei giubbotti o dalla sconsideratezza degli short. Solo i dispersi girano mezzi nudi, o le ballerine, mostrare la carne è sintomo di povertà. 

Mentre mangiavamo cibi stampati che imitavano il sapore della verdura, Helen non smise di sorridere con occhi immobili, aveva l’espressione di una bambola di porcellana. Mia madre e il signor Viale si scambiavano occhiate furenti senza parlarsi, suppongo si conoscessero da tempo e non si andassero a genio. Il signor Viale aveva una voce baritonale, burbera. 

«Diogene, ti do duecento dinari se dai ripetizioni di italiano a mio figlio, vorrei gli insegnassi a pensare».

«Come si può insegnare a pensare?» disse mia madre. 

«Cinquecento dinari».

Mia madre rise amaramente e accettò. Questa faccenda delle lezioni private mi diede lustro, mi sentii per la prima volta parte di qualcosa, poter calibrare il talento in valore oggettivo fu il primo passo verso l’identità. In compenso Mauro m’insegnò a usare gli o.c. e a entrare in tutti i database, lui lo faceva spesso e riusciva a modificarne i dati. Fummo fratelli.

Il primo anno di università fu inutile, segue un vuoto, durato forse anni, ai termini del quale il parlamento era stato esautorato in favore del Palazzo e Mauro ne era ai vertici. I giornali chiusero, le televisioni smisero di propagare notizie di guerra, politica, sbarchi. A reti unificate si parlò sempre e solo del Palazzo, delle mode del Palazzo, dei dipendenti del Palazzo e del direttore: Mauro Viale. L’intera configurazione planetaria mutò, nessuno più ricordava i nomi delle città, nessuno più ne ricordò le tradizioni. I luoghi divennero interscambiabili. Vivemmo un sogno, un misterioso stato di ebrezza, sembrava che tutto filasse finché non m’interrogai sulla morte di mia madre.

 


 

9.

 

A fine turno raggiungo Mauro in terrazza, ci abbandoniamo sulle sdraio, guardiamo l’acqua tersa della piscina sorseggiando Sadori (un cocktail al sapore di vodka e arancia a base di fosforo e omega tre).

«Oggi Valerio mi ha teso un agguato» dico.

«Lo so bene».

«Forse ho esagerato con la storia degli antidepressivi».

«Ma scherzi? Quelli della r.c. a volte lo fanno, non reggono il carico di responsabilità».

«Senti Mauro, ieri come sei tornato?»

«Ieri?»

«Dal casermone».

«Che casermone?»

«La ballerina mulatta».

Mauro stira la tunica con le mani mettendo in luce l’addome scolpito, mi guarda di sguincio, un sorriso mozzo gli conferisce un’aria algida.

«Lascia perdere».

«Diogene, hai uno sguardo strano oggi».

«Non ho niente. Sono stanco».

«Capita. A proposito, ho conosciuto Diana, è sveglia».

«Ti piace?»

Mi dà una pacca sulla spalla, si alza e va verso la piscina, fissa l’acqua inquieto come se ci vedesse riflessa una mostruosità. Lo raggiungo e seguo i movimenti ondulatori delle nuvole nell’acqua.

«Una bella rogna, piccola al punto giusto», mi guarda severo: «le dipendenti lasciamole dove sono».

«Ci mancherebbe. È una bambina». 

«È molto più arguta di quanto tu possa immaginare».

«Hai voglia di provarci?»

«No, è un errore che non farò più. Guardati da lei».

Se stessi a sentirlo dovrei guardarmi da qualunque forma di vita di sesso femminile.

«L’importante è che ti piacciano le sue idee».

«Hai programmi per stasera?»

«Vorrei riposare, leggere un libro e andare a letto presto».

Mi dà una leggera spinta, il suo ghigno mi atterrisce.

«Penso che dovresti finirla con i libri. Vieni da me, festeggiamo, ti faccio conoscere una».

«Preferisco stare a casa, davvero, grazie».

Mauro va via senza rivolgermi uno sguardo, di spalle mi chiede di chiudere a chiave il suo ufficio, lo seguo con gli occhi. Ho altro in programma per stasera ma prima devo vedere Fiore, il mio blister di Adrenoplus è ai minimi storici.

 


 

10.

 

Lo studio del dottor Fiore è in una zona fuori città, uno spiazzo nei pressi di una gravina, attorniato da greppi e festuche. Un giorno comprerò un’Arcavol, al momento mi accontento di una vecchia Ferrari nera. Mi fa ridere l’idea che una volta queste lumacone fossero considerate auto sportive, altolocate. I nostri antenati non avevano grandi cognizioni di meccanica, probabilmente per loro planare sul traffico e bruciare dieci chilometri al minuto era un proposito fantasmagorico. 

Lo slargo antistante lo studio è un piccolo campo di grano potato, i pettirossi cinguettano e le cicale stormiscono, il cielo è cesio, non soffia vento e non si vede una nuvola; in lontananza pini, querce e lecci restituiscono al nitore pomeridiano una nota verdastra. 

Fiore è uno dei pochi al mondo a potersi permettere uno studio in mezzo al nulla. Si tratta di una villa, niente di ascensionale, un solo piano, mattonelle rosse. Citofono ma non risponde nessuno. Provo a forzare la porta ma è serrata. Le finestre sono chiuse ma non sbarrate, dovrebbe tornare. Provo a scrivergli anche se in questa zona gli o.c. non funzionano. Gli telefono e non risulta raggiungibile. Aspetto mezz’ora e non si vede nessuno. Cerco scorrendo nelle mail con la funzione tattilottica degli o.c. e trovo una sua missiva:

 

Diogene, perdonami. Mi hanno fatto una proposta importante. Da oggi non riceverò più e non potrò più prescriverti l’Adrenoplus. Penso sinceramente tu possa farne a meno, dovrai però affrontare qualche giorno d’astinenza. Per evitare l’astinenza puoi spezzare le pastiglie rimaste e assumerne metà per cinque giorni e per altri cinque un quarto, spero tu ne abbia a sufficienza. Sul piano psicoanalitico non ho nulla da dirti, oramai ne sai più di me, a eccezione del consiglio di dominare la rabbia, mi riferisco al tuo rancore sociale. Il terrore per le frane tornerà a farti visita e dovrai affrontarlo con le tue risorse, ma ne sei del tutto in grado. Un giorno ti racconterò le ragioni di questa dipartita, ti assicuro che non avevo scelta. So che non capirai ma ti prego di perdonarmi.

Un sincero abbraccio

Tuo 

Berardo Fiore

 

Ho la sensazione di dissolvermi, come se il mio corpo fosse fatto di pixel e tutti, minutamente, si separassero fino a ledere la coesione d’insieme; non è detto sia un male, alcuni mistici induisti individuano nella vacuità il raggiungimento di una coscienza superiore. La gioia e l’ansia sgorgano dagli stessi presupposti: il raggiungimento di uno stato supremo dove sentire e pensare si discostano dalla presenza. Il sentire diviene conseguenza del pensiero, questa forma di beatitudine si raggiunge mediante la soppressione del desiderio ma anche nell’istante in cui desiderare risulta intrinsecamente impossibile, per esempio quando la porta del tuo psicanalista è serrata. 

L’ansia è coscienza della paura, paura che si ritorce e riflette su di sé. Si stenta a credere fino a che punto la paura aderisca alla carne, la mia è una forma di addensamento. Rientro in auto madido e non riesco a fermare i tremori; non ne ho più bisogno, dice, ne so più di lui, dice, ma poi si presenterà l’astinenza, sarà atroce. Le mani fremono sul volante e comincio a percepire lo scollamento. Il centro della strada frana, la campagna, tutta, si scinde in frammenti. Dietro l’idea della bellezza si nasconde un santuario di morte. 

Un frammento di coscienza rompe l’isteria. Frugo nel borsello sull’altro sedile e trovo l’ultima compressa di Adrenoplus, non potrò mai spaccarla in due, la ingoio intera e a poco a poco riprendo a respirare. È solo paranoia, solo paranoia.

Riprendo a guidare, vado verso il casermone, da Sibilla.

 


 

11.

 

La strada si avviluppa nei tornanti, ieri nell’Arcavol non ci ho fatto caso, l’asfalto scosceso arriva fin sulle colline. Nel cielo le nubi sembrano carri bruciati dal sole. Il grande portale diroccato del casermone è aperto, dai piani superiori viene un rumore di colpi secchi, da quello inferiore una luce crepuscolare. 

Scendo rapido, è in ginocchio di spalle ma riconosco i capelli di Sibilla, la sua voce orientale, un gemito che si fa canto, torna l’immagine di mia madre, con lei, in Marocco, ho sentito questa melodia, durante un funerale. 

«Cosa vuoi?» dice Sibilla.

«Ho bisogno d’aiuto».

«Non capisco».

«Hai detto che offri alla gente una possibilità».

«A quelli che chiamate dispersi».

«Adesso te la chiedo io».

«Diogene, non provarci, so chi sei».

«Tu non sai niente».

Mi avvicino, la prendo per i capelli, Sibilla chiude gli occhi. Le sue labbra corpose, bagnate, mi annientano.

«Non farlo» dice.

«Cosa?»

«Potresti pentirtene».

Allento la presa, si libera e mi pianta gli occhi nelle pupille, Sibilla non vuole me, lei è qui, antica come pietra.

«Non posso andare avanti» dico.

«Cos’hai?»

«Un peso tropo grande che non riesco a sostenere».

Mi guarda ed è un nemico.

«Tua madre ha cercato di illuminarti ma i tuoi occhi erano chiusi» dice.

«Cosa sai di mia madre?»

Chiude gli occhi, la sua pelle s’impregna di un odore acre, speziato. Le tocco un braccio, è freddo.

«Sei in un vicolo cieco» dice, «io ti seguo ma non posso nulla».

Ha cambiato voce. Apre gli occhi e respira affannosamente. 

«È stata lei a portarti qui».

«Cosa sai di lei?» mi tremano le gambe.

«Io non so nulla, ascolto e basta».

Saliamo i gradini. Al piano superiore una sala circolare. Tre anziane vestite di nero, sedute intorno a un filare, ci scrutano ieratiche.

«Lui vuole passare» dice Sibilla.

Le donne continuano a cucire e sorridono amaramente, non fiatano ma scuotono la testa.

«Che significa no?» dico.

Sibilla mi lancia un’occhiata.

«Non si commenta l’oracolo» dice. «Non sei pronto».

L’ultima dose di Adrenoplus è ancora in circolo, per questo non cado in preda alla disperazione ma quando uscirà dal corpo realizzerò ogni cosa, gli incubi s’impossesseranno di me. Sibilla mi prende per mano. Ridiscendiamo i gradini, la sua stretta è calda.


 

12.

 

Nelle segrete una porta rossa conduce a una stanza circolare con pareti antracite, letto con baldacchino e copriletto di seta con una stella a otto punte di lana. Ai piedi del letto il fumo di quattro bastoni d’incenso si perde nell’aria. Una musica orientale effonde ma non capisco da dove arrivi. 

«Cosa facciamo qui?»

«Hai un altro modo per accedere».

Mi spinge sul letto, sale su di me e mi solleva la tunica, le dita si allungano tra i peli delle gambe, fino al pube, le labbra mi umettano la pelle, l’afrore del suo corpo mi pervade, mi eleva. L’afferro per il collo e la bacio, a lungo; sento il gusto sanguigno della sua lingua, non riesco a frenare le mani, sfilo l’abito rosso e le avvolgo i seni, mi viene di morderle le labbra e poi o le spalle, il dorso, il culo. Sibilla si lascia toccare e poi diventando un’altra si sottrae. La stanza prende a tremare e non so più dove sono. Stringo in pugno i suoi capelli e mi accascio sul letto, la rete si spacca e il cuore con lei.

«Ti prego, fermala».

Sibilla mi accarezza le guance sudate e preme la contro la mia.

«Ferma la stanza, fa’ qualcosa».

Muove appena le labbra, sussurra parole che non comprendo, le ripete e mi tiene ferme le mani.

«Chi sei?» urlo.

Sibilla a occhi chiusi continua a pregare in quella lingua astrusa e io non riesco a starle dietro, a sentirla, a figurarmi una via d’uscita. La stanza ha smesso di tremare e i battiti cardiaci tornano regolari ma una foga ottusa m’induce a fuggire e il rito non si compie. Corro incosciente lungo tutto il casermone, da altre porte socchiuse proviene altra musica e mani e piedi, promiscuità di corpi. In fondo all’ultimo corridoio una coda di uomini vestiti di nero, uno di loro cerca di fermarmi per chiedermi se la cerimonia sia iniziata. «Non so nulla», dico, e fuggo. Raggiungo la macchina, metto in moto e filo via. 

Nella luna gonfia e nivea rivedo i suoi occhi sovrapposti a quelli di mia madre. Quando la crisi si acquieta sono già a casa, ascolto il notturno di Chopin che è l’unica cosa che riesca a darmi pace.

Sull’oscenità delle mie fobie ho riflettuto a lungo, è un legame insano con la memoria, come se mia madre non fosse morta e m’avesse lasciato nella condizione di non poterla raggiungere. Queste frane, queste grida, sono le sue ossa, il ricordo che ho di lei si disperde nelle reti neurali, scatena un’infinità di immagini di cui non distinguo il vero dal falso. Talvolta la invoco come fosse Dio: «Salvami, ti prego!». Senza Adrenoplus sono nudo, un verme, mi manca la pelle e qualcuno prima o poi se ne accorgerà. 

Adesso i tremori sono cessati ma cominciano le ideazioni: sono il figlio scacciato di un tempo senza padri. Vorrei che la mente potesse fermarsi, la smania di risposte mi rende impossibile distinguere il pensiero dal dato, ogni verità potrebbe essere falsa e io stesso potrei non essere vivo. Così mi tengo immobile, rannicchiato in un angolo, la macchia d’umidità sul soffitto disegna lingue di luce. Ho studiato troppo bene l’inconscio per non sapere che il terrore viene da un trauma, un dolore che ho dimenticato si ripresenta nelle frane. Vorrei essere libero da questa insignificanza, vorrei solo dimenticare mia madre e il crollo, lavorare sereno e scopare, come tutti, ma qualcosa di antico mi sta divorando. La notte mi schianta al suolo, una stanchezza pesante mi avvolge, eppure non riesco a dormire, le palpebre restano immancabilmente aperte. Riesco solo a frugare nei cassetti, ho due scatole di pillole culturali quasi vuote, è rimasta una compressa, credo sia un Cioran. La ingoio.

 


 

13.

 

Indosso gli o.c., entro in SocialMind, centododici messaggi non letti, duecentoquaranta notifiche, le guarderò dopo. Un profilo di giovane donna scrive in bacheca: «L’unica forma di libertà umana è il suicidio».

«Ci si uccide solo se si è sempre stati per certi versi fuori da tutto» commento.

La donna è un avatar, mi chiede di seguirla, il mio ologramma la raggiunge, è Sibilla. Siamo in una cava di pietra, circondati da gradinate a chiocciola. Sibilla sale e la seguo. Non è esattamente una cava, è una torre. Al primo piano una stanza rossa con candele disseminate sul pavimento, ragazze cinesi, afro e arabe, ballerine del casermone. 

Lei sale ancora, ritroviamo le anziane vestite di nero, filano e non si degnano di noi. Al terzo piano un prato luminoso, no, una prateria; un ologramma, naturalmente. Avanzo di qualche passo. Il terriccio fa piccole fosse sotto le mie scarpe, ha l’odore del muschio. Mi piego, accarezzo l’erba, la strappo. Sibilla mi blocca il polso. La prateria è vasta, sterminata, anche se la torre è stretta, angusta, la prateria al terzo piano sembra non finire. 

«Esiste in noi più che una volontà una tentazione di morire» dice Sibilla. I suoi occhi neri e grandissimi scintillano. «Il suicidio è il nirvana mediante la violenza» conclude.

Corre nella prateria e io dietro di lei, nel prato un campo di iris viola, corolla larga e stelo affusolato, i fiori preferiti di mia madre. Procediamo verso gli alti pini in lontananza, il cielo è terso come il cielo del sud, non siamo più nella Città 207. Tra i pini compaiono piccole orecchie pel di carota, un animale slanciato saetta da un tronco a un altro, una volpe forse. Più avanti tre cervi fermi colpiti per metà dorso dai raggi di questo sole trasparente e poi due cavalli, uno bianco e uno nero, Sibilla sale sul bianco, io sul nero. La consistenza fisica della sella è reale, solida, pelle vera e vero afrore di cavallo, pelo liscio, briglie strette. Il mio corpo non sembra un ologramma, è qui, intero. Andiamo al galoppo, tira una bora invernale e arriva l’odore del bosco, alberi e fiori selvatici. Un rivolo d’acqua scende da una piccola altura e forma uno stagno che dobbiamo attraversare, i cavalli nitriscono e si tirano indietro, rallentano, dopo qualche secondo lentamente entrano nell’acqua. Lo stagno è verdastro, galleggiano foglie di ibisco stracciate, su alcuni sassi gracidano le rane, sette piccole rane. Oltre lo stagno i cavalli si fermano accanto a un cespuglio, annusano e fremono, come volessero piangere. Nella sterpaglia una gamba annerita con un rivolo di sangue rappreso lungo il polpaccio. Il corpo, nascosto dagli sterpi, ha l’odore della carne rafferma. Alle sue spalle due ulivi e una catapecchia di legno. Sibilla scende dal cavallo ed entra. Io scendo e mi accovaccio sulla salma, la tiro fuori dal pantano. È una vestita di blu, camicia e gonna blu, capelli ricci castani, labbra carnose, guance ossute, occhi scuri sbarrati, mia madre.

La scuoto ed è fredda, forse è qui da giorni, ma perché qui? Non era morta in un incidente stradale? Sento l’orrore salirmi dalle gambe, il gelo della sua pelle si trasmette nella mia. Un oscuro presagio mi avvolge e mi lascio sprofondare nell’angoscia, rapide bordate dalla pianta dei piedi allo sterno, crampi pungenti martellano le tempie. Sibilla esce dal casolare con un coltello a serramanico.

«Il fatto semplice di guardare un coltello e capire che dipende unicamente da te il farne un certo uso, infonde una sensazione di sovranità che tende a trasformarsi in megalomania» dice e mi consegna il coltello. 

«Questo è il regno del libero arbitrio, nessuno può condannarti per ciò che fai nel mondo virtuale. Perciò scegli se uccidere te o il mondo, per tutta la vita non ci viene chiesto altro che questo». 

«È una prova», dico. «È una trappola».

«Quando ci afferra l’idea di farla finita, uno spazio si stende davanti a noi, una vasta possibilità fuori dal tempo e dall’eternità stessa, un’apertura vertiginosa, una speranza di morire al di là della morte» dice.

Mi punto il coltello al petto e chiudo gli occhi, li riapro, osservo la lucidità fulminea della sua pelle scura, i grandi seni che si espandono nell’espirazione, le labbra tumide e quegli occhi così neri. Infilzo il petto di Sibilla. Cade a terra, accanto al corpo di mia madre. Due donne con lo stesso destino. I cavalli imbizzarriti nitriscono e corrono via. 

Sfilo gli occhiali. Sono trascorse dodici ore. Non ho sonno. L’ologioco si fa serio, un viaggio nelle profondità dell’inconscio. Un’ipotesi che non posso scacciare. Il chiarore dell’alba deflagra oltre i vetri di questa stanza, il cielo si schiude in una battaglia di viola e di blu verso la luce del giorno e mi sembra che il mattino contenga il seme della notte.

 


 

14.

 

Sono un uomo tendenzialmente disforico ma l’Adrenoplus era per me l’equivalente delle sigarette di procaina, ero spinto all’azione. È una sostanza che agisce direttamente sulla produzione endocrina di serotonina, non un SSRI ma un ISS: istantaneo stimolatore di serotonina, ora quindi, al di là delle ideazioni melanconiche che non sono mai cessate, sento scemare le energie. Ogni minimo gesto richiede una concentrazione e una fatica superiori alle mie forze. L’idea di percorrere la solita strada per andare al lavoro grava come un macigno e anche la lettura mi pare una fatica immane. Ho comprato un pacchetto di quelle sigarette, ne fumo una seduto sul letto, lascio cadere la cenere sul parquet, una rapida scossa toracica seguita da una sensazione di leggerezza, quel che mi distingueva dagli altri andrà perduto. Esco.

Sembra la passeggiata di un morto, fatico a muovermi, tossisco, non sono certo che i grumi di cemento franato siano reali. Osservare le persone in questo stato è assurdo, la maggior parte di loro somiglia a spettri, tuniche lunghe monocromatiche, sguardi smarriti in celestiali alterità, sono cyborg, hanno una doppia vita, il qui e ora non è che un sogno, sono ormai tutt’uno con i loro avatar; i rapporti sessuali sono pure ideazioni, fanno sesso tra avatar, con persone che realmente non conosceranno mai, il loro orizzonte di senso è completamente immaginifico, riescono comunque a eseguire gli ordini elementari quantunque la struttura del loro cervello sia definitivamente alterata. 

La Città 207 è simile, si diceva, alle altre: c’è una zona archeologica recintata cui si può accedere solo con speciali permessi, tutti i monumenti sono stati raggruppati lì, non esiste più via dei Fori Imperiali, Piazza Venezia, il famigerato centro storico, tutto è stato raggruppato in un unico luogo, un grande museo. Solo le chiese sono rimaste dov’erano ma sono diventate luoghi di svago, scenari per giochi di ruolo connettivi. Il resto è piallato: parchetti all’inglese, grattacieli, centri commerciali e fast food. Ogni volta che vado al lavoro passo di fronte a D112, mastodontico centro commerciale di trecento piani, una torre illimitata di cui è impossibile vedere l’imo, il cielo vi si specchia adamantino. Al piano terra una delle poche farmacie culturali. Un negozio verde che odora di agave, i cui scaffali sono gremiti di scatole contenenti una vasta gamma di scelte intellettuali, tra cui saggi, romanzi, poemi, graphic novel e libri d’arte. 

Entro e ordino una scatola di compresse nichiliste, un blister di pasticche esoteriche e uno di pillole psicoanalitiche, naturalmente comprendono alcuni testi di Jung, tutto Cioran e altri di Freud, Lacan, Melania Klein. La psicoanalisi è ormai impraticabile ma è ancora possibile fruire del pensiero dei grandi maestri attraverso le pillole. 

La commessa è una trentenne bionda allampanata, sorride e guarda in alto, sta chattando con qualcuno senza o.c., è una cyborg. Saluto e vado via. Questa gente non ha idea del fastidio che procura a coloro che non hanno un sistema operativo intraneurale, detesto essere trattato con tanta sprezzatura. Auspico un blackout, vorrei vedere come reagirebbero se i loro sistemi facessero cilecca.

Esco e apro l’ultimo blister, prima di arrivare al lavoro ingollo la compressa rossa. Penso sia un Gustav Jung.

 


 

15.

 

Andando verso l’ufficio la musica che effonde dalle finestre dei palazzi mi colpisce come un pugno in faccia, la stessa musica, la stessa nota ossessiva: psytrone. Perché l’ascoltano? Che emozioni provano? Incrocio una donna che va al lavoro con le cuffie nelle orecchie, mentre cammina fa piccoli scatti di bacino e sterno, anche lei ascolta psytrone. Un uomo mi supera canticchiando un motivetto nonsense, e dalle sue cuffie esala la stessa psytrone. Come hanno potuto imporci di amare un simile abominio? Anche dalle Arcavol arriva lo stesso suono ossessivo, gli stessi motivetti cretini, le stesse filastrocche nonsense. Siamo giunti al tracollo definitivo del gusto. Arrivo in studio privo di forze. Mi siedo e aspetto il primo disperso.
Entra alle dieci e quarantacinque, mi siede di fronte, ha una lunga barba brizzolata, capigliatura scarmigliata, naso camuso, mento prognato, lacera maglietta ruggine e grandi occhi incavati. Il suo nome è Giulio, Giulio Bonsignore. 

«Sono tornato indietro», dice.

«Indietro?»

«Dal ricovero».

«Non è possibile, nessuno può tornare».

«Sono fuggito».

«Dopo quanto tempo?»

«Anni, ho perso il conto».

«Lei crede che dopo anni di ricovero».

«Non credo nulla, devo».

«Da cosa fuggi?»

«Dalla pazzia».

«Se vuoi trovare delle vie, non disdegnare la pazzia, perché costituisce una parte tanto grande della tua natura».

Le ultime parole vengono fuori senza che io le abbia pensate, senza che vi abbia apposto alcun freno e ne seguono altre, assurte alla verbalizzazione senza passare per il filtro della coscienza.

«La pazzia è una forma particolare dello spirito e aderisce a tutte le dottrine e le filosofie, ma ancor più alla vita di ogni giorno, poiché la vita stessa è colma di follia ed è sostanzialmente irragionevole. L’uomo aspira alla ragione solo per potersi creare delle regole per lui stesso. La vita in sé non ha regole. Questo è il suo segreto, questa è la sua legge sconosciuta. Quello che tu chiami conoscenza è un tentativo di imporre alla vita qualcosa che risulti comprensibile».

«Diogene, io ero sano. Quando ero bambino mio padre mischiava il vino con l’acqua e mi dava da bere. A diciotto anni ero alcolizzato. Fuggii da scuola, non ero mai andato d’accordo con nessuno. Mi chiamavano San Giulio perché portavo i capelli lunghi e la barba, non avevo una donna e il desiderio mi torceva le viscere ma li odiavo. Allora non esistevano i ricoveri, avevamo la possibilità di parlare. Così fui portato dal dottor Fiore che mi chiese cosa sentissi. Non riuscivo a descrivere nulla, le sensazioni erano ovattate, il sentire stesso era annebbiato da un’indifferenza senza segno, ecco, chiamo questa insensibilità: grande indifferenza. Era cominciata dal momento in cui mia madre si era ammalata. I miei non avevano mai litigato ma ricordo a tavola i lunghi silenzi. Il non detto ci avrebbe uccisi. Mio fratello piangeva di continuo, io invece cercavo i significati. Anche a scuola, ero bravo, studiavo ma non mi bastava, cercavo i significati dietro le cose. L’unico modo per attutire questa brama era l’alcol, così bevevo e non capivo la rabbia di mio padre, era stato lui a iniziarmi all’annebbiamento. Il dottor Fiore mi diede delle compresse di Adrenoplus, disse che avrebbero risolto ogni cosa e che avrei smesso di bere. Così fu, smisi e nel corso dei colloqui venne fuori l’odio per mio padre. Andai via, in Germania, esistevano ancora le nazioni. Lavorai per diversi anni in un pub e nonostante ciò non toccavo un goccio d’alcol. Dovetti tornare perché i miei genitori, ormai separati, erano entrambi morti in circostanze misteriose. Quando sono arrivato, Roma non era più Roma. C’erano solo macerie. Due infermieri mi accolsero in stazione e decretarono che ero psicotico e andavo internato. Io sono qui per puro caso, sono riuscito a fuggire e so che questo è il Palazzo della Legge. Voglio parlare con il direttore».

«Parli come se fossi in manicomio».

«Questa è bella! Ci sono stato a lungo ed è una fine che non augurerei neanche ai peggiori».

«Sì, mio caro. Lei è confuso. Parla in modo del tutto sconnesso».

«Diogene, mi prende in giro? Prima mi dà del tu, poi torna al lei, non risponde alla mia richiesta. Che diamine di gioco è questo? Voglio parlare con il direttore del Palazzo, lo esigo!»

«Abbia pazienza. Tutto andrà a posto. Dunque, dorma bene!»

«È ciò che ho fatto, non ci torno là dentro, ha idea di cosa fanno alla gente quelli?»

«Che cosa c’è? Ha un’aria spettrale. Cosa è accaduto?»

«È questo che ti fanno, Diogene, sono loro a farti impazzire. Ti mandano in confusione, non sai più nulla, neppure se sei vivo o morto».

«Adesso non ha bisogno di cercare nessuna via».

«Dove andrò, Diogene? Cosa sarò?»

«Creiamo le strade mentre le percorriamo. La nostra vita è la verità che noi cerchiamo. Soltanto la mia vita è la verità, la verità assoluta. Noi creiamo la verità vivendola.»

«C’è una cosa che voglio dirle: questa società numerica in cui le città non hanno nome, gli esseri umani sono propaggini di sistemi operativi, gli incontri avvengono sulla base della falsificazione di un ologioco, le persone sono distinte in dispersi e incontaminati, la reputazione è l’unico metro di giudizio e la fragilità è gettata al macero, beh, mio caro Diogene, questa società è destinata a marcire perché si nutre di follia, la stessa che voi gettate nei ricoveri, la stessa che volete estirpare. Questa non è pazzia, Diogene, ricoveratemi pure, ma io non sono pazzo, questa è disarmante lucidità».

Resto in silenzio, ancora sbalordito dalle parole incoscienti che ho dovuto pronunciare, un barlume di coscienza sorge dal fondo del pensiero, guardo gli occhi sofferenti di Giulio.

«Fuggi», dico.

«Cosa?»

«Hai capito bene: fuggi, scappa, adesso!»

Giulio si alza, si guarda intorno, mi fissa atterrito. 

«Non c’è scampo per la lucidità, ti riporteranno al ricovero. Fuggi! Corri! Scappa!»

Si mette a correre, apre la porta e continua a correre. E io ho infranto la legge. Cosa dirò a Mauro?

 


 

16.

 

Sudorazione, affanno, brevi crampi intramuscolari. Temo sia ancora una forma di astinenza dall’Adrenoplus. Mentre aspetto il prossimo disperso fumando procaina mi ritrovo a immaginarmi impiccato. Il pensiero della morte sopraggiunge in un brivido quando ciò che lega l’io alla percezione fa cilecca. Rattrappito in infinite nostalgie mi risveglio solo, sopravvissuto all’evidenza del mio ruolo. Sono stanco. Consapevole in fin dei conti di non aver nulla da offrire e troppo timoroso delle conseguenze delle mie azioni. Una volta era chiaro il limite tra libero arbitrio e costrizione, adesso qualcosa di più sottile ci ha irretiti, ciascuno è libero di fare ciò che vuole la Città, la mia libertà coincide con il mio destino e il mio destino con la necessità del sistema. Basta affacciarsi alla finestra per essere invasi dall’orrore, l’uso smodato di sigarette procainiche ha mutato il gusto in maniera definitivamente demenziale, tutti iperattivi e saltellanti al ritmo bestiale della psytrone con sorrisi leporini e sguardi persi nelle illusioni della rete. Io questa musica la bandirei dalle città, dall’intero pianeta, urletti metallici su basi di trecento battiti per minuto, inutile marmaglia di carne tirata a lucido. L’inquietudine dei pensieri si è intensificata dal giorno in cui la dose di serotonina è bruscamente calata nel mio organismo, le sigarette hanno peggiorato le cose. Nel venire al lavoro ho avuto di fronte l’orrore. Adesso lavorare con i dispersi mi risulta gravoso, in nessuno di loro riconosco un nemico della Città, in nessuno un potenziale alleato, sono anime risvegliate i cui occhi devono restare sigillati. Alla luce di queste considerazioni nutro dei dubbi anche su Mauro, l’ho sempre considerato un uomo di grande intelligenza, non mi sembra possibile che creda davvero alla favola di cui è complice, allora mi domando se non sia completamente in malafede. Sulla base della nostra amicizia sarebbe opportuno parlargli ma è il mio superiore, come temevo nel rivelargli dell’Adrenoplus ora temo nel metterlo a parte della mia presa di coscienza. 

Entra Diana con un vassoio, anche lei indossa una tunica bianca ma ha una capigliatura elegante in larghi boccoli che cadono fino alle spalle, i suoi occhi ceruli saettano nella penombra della stanza. 

«Perché tieni la stanza così buia?», dice.

«Nessuno ha voglia di guardare in faccia un carnefice», rido.

«Credi di fare così paura?»

«È il motivo per cui resisto in quest’azienda».

«Secondo me sei tu che hai paura».

«E di cosa?»

«Che io ti tradisca».

«Ne avresti motivo?»

«Certo, prendere il tuo posto», ride.

Rido.

Nel vassoio ci sono dieci dosi di polveri colorate, Diana mi guarda, un sorriso isterico sul suo volto michelangiolesco.

«È un test», dice. «Scegli e infilane un pezzo sotto l’unghia».

«Voluto da chi?»

«Da Mauro».

«Pensi che me la beva? Mauro è il mio migliore amico, sarebbe venuto personalmente».

«È un test a cui sottoporremo i dipendenti, tutti. Mauro vuole che me ne occupi io, è stata mia l’idea di iniziare da te».

«Vuoi proprio soffiarmi il posto?», sorrido.

«Naturalmente», sorride anche lei con una certa malizia.

«Ingrata, ti ho fatto entrare io, dimentichi?»

«Ma non sei tu ad aver inventato il test della felicità».

Intingo il dito nella polvere blu e la infilo sotto l’unghia, Diana mi osserva attenta, lo sguardo ansioso di una rivelazione.

«Blu» dice. «Nostalgia».

La polvere s’infila nella pelle e la mia cabina di comando si sfoca, si annebbia, gli odori anche si confondono in un’unica antica mistura. La salivazione aumenta fino a riempirmi la bocca. Chiudo gli occhi per fermare il mulinare degli oggetti nella stanza. Mia madre, mi viene in mente mia madre, le vacanze salentine, selvagge, io e lei in tenda nei pressi della Grotta dei Cervi, le mattine in cui stordito dal picchiare violento del sole non volevo svegliarmi e mia madre mi spingeva fuori dalla casa di pietra. 

«In acqua! In acqua!», diceva. 

«Odio questo posto», dicevo. «Mi sento in prigione».

Il mare sconfinato e il paesaggio brullo, di grano, sterpaglia, roccia dura, appuntita, le insenature in cui l’acqua era così tersa da farti desiderare di berla.

«In prigione?», diceva lei, respirava a pieni polmoni come se inspirasse per la prima volta. «Questa la chiami prigione? La città è prigione, Diogene. La natura libertà. In acqua! In acqua!»

Ed ero costretto a tuffarmi. La vita con lei non prevedeva tempi morti, neanche in vacanza, era tutto un susseguirsi di bagno alle sette del mattino, passeggiata a cavallo, tiro con l’arco, passeggiata in pineta, pesca, legna, falò, brace.

«Ma perché, ti chiedo, perché devi farmi vivere da selvaggio?»

«Questa è la libertà».

Non c’era dialogo, decideva sempre lei, dovetti cimentarmi in tutta una serie di attività considerate archeologia.

Apro gli occhi e di fronte a me Diana e Mauro si tengono per mano, mi alzo e vado verso di lui ma mi spinge contro la poltrona, ricado.

«Perché?»

Mauro passa una mano sui fianchi della piccola Diana, le accarezza le cosce, l’afferra per la schiena e lei si lascia scivolare a pancia in giù sulla mia scrivania. Mauro le solleva la tunica, le accarezza i glutei sferici.

«Quando giovani e in carne, diventano molto pericolose».

Diana ride e socchiude gli occhi, sembra inebetita da una qualche sostanza. Mauro passa più volte la mano tra le cosce della piccola e avvicina il bacino al suo, apre le sue natiche e poi le grandi labbra. Se la scopa davanti a me, senza pudore.

«Che cazzo fai?»

«Lo vedi? Questa troia ci ha divisi. Le donne sempre ci dividono».

«È una ragazzina, lasciala!»

Mauro continua a ingropparsela con foga animalesca.

«Cosa c’è? Ti piace?», dice. 

Le dà un colpo di bacino secco e lei lancia un urlo smorzato, poi si discosta lasciandola cadere a terra. Diana si contorce sul pavimento e mi sorride mentre la guardo con piglio atterrito.

Apro gli occhi. Diana mi tocca la fronte, respira affannosamente, è impallidita; dalla fronte passa al polso, poi finalmente mi guarda negli occhi e vedo un’ombra nei suoi.

«Sei tornato» dice. «Mi hai fatto spaventare».

«Dov’è Mauro?», dico.

«Nel suo ufficio».

«Hai una storia con lui?»

«No, Diogene e non voglio fregarti il posto. Stavo solo scherzando».

«Sta’ lontana da Mauro».

Diana mi guarda febbricitante.

«Perché?»

Taccio e non riesco a smettere di guardarla, non è più la ragazza bionda ma una minaccia e se verrò cacciato dal Palazzo sarà stata lei a decretarlo, proprio lei che ho voluto favorire.


 

17.

 

«Il tuo test ha funzionato. Ora schiodati» dico. «Ho del lavoro da fare».

«Mi odi?» chiede con sguardo languido.

«No, ho solo da continuare le mie sedute, puoi andare adesso».

«Non dovresti continuare con quella roba nel sangue».

«Roba, dici? Di cosa si tratta esattamente?»

«Ti ricordi l’algoritmo sulla felicità?»

«Sì».

«Siamo andati oltre».

«Ah».

«Se l’algoritmo dice che potresti essere infelice, noi possiamo verificarlo con esattezza attraverso una dose di neuremotal: la sostanza che si sta sciogliendo sotto le tue unghie».

«Sagace, bambina, ora si spiegano le visioni. Perché hai voluto provarla su di me? Perché mi hai fatto scegliere il colore?»

«L’algoritmo t’individua come una delle più probabili persone infelici nel Palazzo e solo nel blu c’era una dose di neuremotal, se avessi scelto la polvere rossa sarebbe stato molto diverso, lì c’era della metanfetamina, in quella bianca della procaina, in quella viola della ketamina e in quella verde soltanto un alcaloide dell’Adrenoplus. Questo significa che una parte di te vuole conoscere il motivo della propria infelicità, inoltre il blu è il colore della nostalgia che probabilmente si riferisce all’assenza di tua madre».

«Brava Diana, probabilmente prenderai davvero il mio posto perché con questo intruglio, sappilo, mi hai fottuto».

Diana fa due passi indietro, le dita smaltate di bianco sui boccoli biondi, respira affannosamente e un lampo d’improvvisa lucidità le attraversa lo sguardo. 

«Io non volevo, Diogene. È stato l’algoritmo a suggerire di rivolgerci a te. Non l’ho deciso io! Io sono solo una spostata, ho un disturbo borderline».

Rido amaramente e tra il perdono e l’ubbia non trovo soluzione.

«Voi borderline siete i pagliacci della psicoguidologia! Neanche soffrite davvero, non siete altro che un bluff. Non sapete cosa significhi svegliarsi ogni mattina con la piena coscienza dell’insensatezza di tutto, forzarsi ad ascoltare una musica orrenda, parlare con persone che non hanno più nulla di umano, contemplare inermi la caduta definitiva di ogni senso e realtà. Voi siete solo i giocherelloni della patologia, il dito infiammato di un organismo rubizzo.»

Diana incespica, dice parole confuse, non riesce a guardarmi negli occhi, allude a Mauro, lui capirà, ciascuno di noi nel Palazzo saprà dimenticare.

«Voi idioti non sapete quanto male fate vostro malgrado» dico.

Cade a terra muta e smette di parlare, smette di guardarmi, non esiste tra me e lei più alcun legame e anche dentro sento spezzarsi qualcosa, andare in frantumi. Ha ragione, devo andarmene, non posso più parlare con nessuno, non servo più a nulla adesso, almeno finché avrò questa merda nel sangue. 

«Dillo tu a Mauro», mi alzo e vado via.

Nella hall bianca, prima della fontana, Valerio passeggia rubicondo, fiero di non so cosa.

«Diogene,» mi mette una mano sulla spalla, «ho visto un tale con la barba correre via spaventato, non me ne vorrai ma ho avvisato Mauro, ero molto in ansia per te» ghigna, il bisonte.

Lo guardo in silenzio, chiudo gli occhi e lo scroscio della fontana arcobaleno si fa insopportabile, mi annebbia l’udito e di nuovo mi prende il panico del sisma, delle frane. Non riesco a controbattere, più veloce di un falco, proprio come Giulio, corro via.

 


 

18.

 

Indosso gli o.c. e mi ritrovo dove il gioco si era fermato. Sibilla sfila il coltello dal petto e si rimette in piedi. La ferita si rimargina in pochi secondi.

«Molto scenografico» dico.

«Uccideresti davvero una guida?» dice.

«Ho delle domande per te».

«Vai».

«Perché mi hai portato qui? Pensi che io l’abbia uccisa?»

«Lei dice di sì».

«E come?».

Sibilla chiude gli occhi, entra in connessione con forze sovrannaturali o solo con la follia.

«Con l’inedia, l’accidia e la paura».

«Stiamo parlando di un piano metaforico».

Sibilla a occhi chiusi risponde con la voce di mia madre: «No, Diogene, non è una metafora. Hai dimenticato i miei insegnamenti, hai lasciato che loro riempissero la tua mente di stupidaggini».

«Sto impazzendo».

«Non stai impazzendo, nel periodo in cui ci siamo separati, ho trovato Sibilla svenuta sulla spiaggia di Sant’Andrea, accanto a una barca, lei aveva delle doti, sapeva sentire. Io vivo in lei».

Questo è un gioco, non è la realtà. Sono dentro un ologioco. Non impazzirò come stanno impazzendo tutti. Io so ancora distinguere il virtuale dal reale. Sibilla apre gli occhi, riprende contatto con la sua voce.

«Sai perché sono qui?» dico.

«Stai scappando» dice.

«Ho bisogno di te, nella vita reale però, non qui».

«Credi che quando sei venuto a trovarmi fossimo più reali di adesso?»

«La realtà è quando due persone si possono toccare».

Sibilla mi stringe l’avambraccio e sento la sua stretta esattamente come se non fossimo in una realtà virtuale. I cavalli non ci sono più. Di fronte ho un edificio in costruzione con un brolo di fichi e carote tutt’intorno e un turibolo gorgogliante all’ingresso. Man mano che mi avvicino mi accorgo che non è un edificio qualsiasi ma il casermone in cui ho incontrato Sibilla per la prima volta. Negli ologiochi le cose cambiano costantemente, come in sogno. Superiamo l’ingresso ed entriamo, il pavimento è sconnesso, pieno di trucioli e oggetti metallici falciati, il soffitto è in parte disserrato. I gradini periclitanti sono quelli del solito casermone.

«Devi salire» dice.

«Cosa è successo?»

«Una retata, ci siamo nascosti in un piano più profondo».

«Che significa?»

«Lo capirai».

«Vieni con me» dico.

«No, devi salire da solo». 

Gratto via pezzi di muro mentre scendo, i palmi s’impregnano di viscidume, a ogni gradino immagino di cadere, i mattoni traballano e gli oggetti nel buio fanno il rumore di sassi in un pozzo. Arrivo al primo piano e ritrovo le tre anziane vestite di nero. Una di queste sgrana gli occhi e mi viene incontro, tra le sue dita un filo argentato balugina nel buio. È vestita di stracci e il volto è scarnito, un teschio. I pochi capelli bianchi si muovono come ovatta a ogni passo. Le vesti lasciano intravedere le ossa della cassa toracica che lo strato sottile di pelle non riesce a coprire.

«Tu» dice «non devi risvegliare i morti. Tu non puoi permetterti di risvegliare i morti».

Tira il filo così forte che le altre due dietro devono fare pressione opposta per non lasciarlo cadere.

Sfilo gli occhiali e riconosco la mia piccola stanza, il giradischi che mi era stato regalato da Mauro, la superbia dell’anacronismo ci faceva sentire degni di dominare gli altri. Talvolta penso alla religione, non alla religione cristiana ma al buddhismo, seppur distante dalla mia cultura immagino il buddhismo come una delle possibili teorie sul reale. Nel buddhismo Theravada il corpo va rifiutato e trasceso e mi domando se le tecnologie non siano l’avvento di questo stadio dell’essere che può mettere in epoché il corpo, il divenire. 

 


 

19.

 

Il fenomeno assurdo è la veridicità di questi viaggi, torni dall’ologioco con il dubbio di non aver giocato ma raggiunto un piano superiore di realtà, questo dubbio ti segue anche dopo, però gli occhiali sono per me, in assenza di Adrenoplus, l’unico antidoto al panico. Mi chiedo se il mondo che vedo con gli o.c. esista a prescindere, in tal caso vedremmo solo più nitidamente qualcosa che in condizioni normali risulterebbe inammissibile. Oramai dovrò portarli sempre con me, al peggio so di poter fuggire in un altro piano. 

«L’anima ha bisogno della tua ingenuità, non del tuo sapere».

Di tanto in tanto mi tornano in mente alcune frasi delle pillole culturali, non avrei mai pensato di assumerle anni fa, leggevo i libri di carta, non avevo bisogno di spararmi il sapere in pasticche, eppure devo ammettere la loro efficacia, con una differenza: ti rimangono impresse delle frasi, dei passaggi, ma viene a mancare la visione d’insieme che invece si ha leggendo un libro pagina per pagina. Perciò molti di noi hanno smesso di pensare profondamente e si attestano su uno strato di comprensione illusorio, citazionistico, frammentario, completamente slegato dal significato. 

Vado al serpentone. Arrivo a notte fonda, posteggio, entro. Non ci sono i soliti uomini smaniosi in coda, non c’è nessuno ma la porta è aperta. Vado verso la gradinata, scendo. La stanza in cui si esibisce Sibilla è vuota, niente ballerine e niente mobili. Salgo di un paio di piani. Anche la stanza delle anziane è vuota. L’intero palazzo sembra essere stato evacuato. C’è solo un cartello bianco che reca una scritta nera: Cercami dove non ho materia. Non è firmato.

Arrivo al decimo, corridoi lunghi impolverati, porte sfondate, reti di letti, sedie con tre o due gambe, vecchi armadi, vecchi fornelli accatastati uno sull’altro. Torno al piano terra e scendo. Al meno uno un corridoio grigio e otto porte colorate. Provo ad aprirle una per volta ma sono serrate. Scendo ancora: un altro piano identico. Fino al meno dieci sono tutti così. Prima di dichiararmi sconfitto tento con gli o.c., ex abrupto il casermone si popola. Le porte del meno uno sono aperte. In quella rossa venticinque bambini di circa nove-dieci anni a cavalcioni su un muretto. Uno di loro, biondo, con occhiali da sole, una maglietta verde lacera e un pantalone in latex giallo si avvicina circospetto.

«Cosa le serve?»

«Sai dov’è Sibilla?»

«Lei è una guardia?»

«No, sono uno che lavora al Palazzo ma sono in malattia, un algoritmo ha decretato che sono infelice e ora mi hanno infilato una sostanza nell’unghia per calcolare il tasso di serotonina presente nel mio organismo».

Il bambino mi fa cenno di avvicinarmi, mi abbasso e lui accosta una mano al mio orecchio.

«Le serve dell’Adrenoplus?»

Lo guardo sorpreso. Mi fa nuovamente cenno e ancora mi abbasso per ascoltarlo.

«Qui smerciamo sostanze psicoattive, questo è il centro di smistamento, quella tipa lì» indica una bambina di non oltre sei anni, castana con gli occhi verdi e una bandana viola tra i capelli, «ha tutto l’Adrenoplus che le serve».

Stringo il braccio del ragazzino.

«Mi prendi in giro?»

«No, signore. Benvenuto a Terrafelice».

«Chi sei? Quanti anni hai?»

«Non abbiamo nome, signore, la nostra età è stata cancellata.»

«Voglio sapere un’altra cosa: che c’entra Sibilla con Terrafelice?»

«Lei ne è la mente, signore».

Il ragazzino riposiziona gli occhiali da sole che gli erano scivolati sul naso e si allontana con passo da volpe. Vado dalla bambina con la bandana, le chiedo l’Adrenoplus. Fruga in un marsupio fucsia, reclama venti dineri e mi consegna una busta trasparente piena di compresse. 


 

20.

 

Sfilo gli occhiali, il casermone torna deserto ma ho davvero una compressa di Adrenoplus in mano, quindi la ingoio e a poco a poco sento il respiro distendersi. Scendo all’undicesimo piano, solo cocci di bottiglia sul pavimento; grido il nome di Sibilla, la voce torna indietro amplificata. Scendo, arrivo a terra e riprendo la Ferrari, nel frattempo Mauro mi ha mandato diversi messaggi, m’invita a cena. Lo raggiungo. 

Siamo lui, Diana e io intorno al grande tavolo trasparente, ascoltiamo l’Inverno di Vivaldi, guardiamo la città dalle pareti di vetro, gli Arcavol intorno al palazzo emanano una luce azzurrognola, sembrano astri. Diana porta un abito da sera stretto e lungo, i suoi occhi chiarissimi sono bistrati di nero come le sue labbra. Mauro versa del vino del secolo scorso e ordina alle domestiche di servire le prime portate.

Due minorenni cyborg nude azionano la stampante 4D, quindi disegnano pane, caviale, pesce e scrivono consistenza, gusto, profumo e durata, la stampante 4D è arricchita della dimensione temporale per cui qualsiasi ente qui prodotto ha una precisa durata al termine della quale si decompone e viene riassorbito dal macchinario. La stampante 4D, come gran parte della materia ormai acquistabile, non viene pagata con i dineri ma con la bor: la moneta virtuale che cresce e decresce a seconda della tua posizione sociale. Mauro ha una bor molto alta, può permettersi qualsiasi acquisto online.

Le cyborg servono del similpane scottato con similcaviale e poi tornano a vagare in un altro piano, vediamo i loro sguardi perdersi in un illimitato altrove. Queste cyborg sono anche ricreazioni: donne tornate sedicenni, hanno deciso di farsi trapiantare ogni organo, per loro la nudità non è un problema, non hanno nessuna percezione termica, anche le sensazioni tattili sono piuttosto rade, la pelle non gli appartiene e, naturalmente, hanno un s.o.i.n., mentre servono il cibo probabilmente sono su altre galassie o in un parco divertimenti all’altro capo nel pianeta o fanno sesso selvaggio in un oloincontro. Non sono presenti in questa datità. Mauro mi ha confessato di aver provato a farci sesso e di essersi compiaciuto all’idea che ne fossero del tutto ignare. Sono bellissime, per quanto la bellezza in loro non corrisponda a un contenuto animico, questi corpi sono opere di chirurgia creazionista, ricostruzioni stereotipate di un concetto universale di bellezza. Non ne sono attratto, ho sempre pensato alla bellezza come a un’essenza che muove le cose, Sibilla mi eleva perché il suo corpo è vivo, mentre danza le riconosco un’anima. Diana mi suscita un miscuglio di attrazione e repulsione per via del tormento che le leggo negli occhi. Tutte le donne con cui sono stato erano vive, presenti a sé stesse, attraversate da una vasta gamma di emozioni, nelle ricreate del tutto assenti.

«Volevamo parlarti delle tue condizioni di salute» dice Mauro.

«Serotonina, endorfina e dopamina erano al di sotto della media fino a oggi pomeriggio ma qualche ora fa sono schizzate a livelli altissimi» dice Diana. 

«Penso che tu debba dirmi qualcosa» fa Mauro.

«Avete provato a controllare voi stessi? Vi siete infilati quella roba sotto l’unghia?»

«Aspetta» dice Diana. «Io ti ho chiesto scusa, te lo ripeto, perdonaci se abbiamo voluto iniziare da te ma pensavamo che una psicoguida dovesse essere a posto».

«Un colpo basso» dico. «Diana, se t’infilassi quella roba nell’unghia Mauro capirebbe chiaramente che sei borderline».

«Hai ragione» dice lei. «Ma io sono una scienziata, non mi si richiede di essere felice».

«Ah no? E perché Grazia, che era solo una casalinga, è stata spedita al ricovero? Cosa succede? Le leggi sulla felicità valgono solo per alcuni? Mauro, non ti beavi di aver sconfitto le disuguaglianze?»

Mauro tossisce, si pulisce il mento sporco di similcaviale e svuota il bicchiere in un sorso.

«Mi sono sempre prodigato per te, Diogene, e continuerò a farlo ma devi collaborare».

I lineamenti del dittatore si sgretolano sui tratti dell’amico di sempre, talvolta i ricordi si innestano su fantasie negative. Non avevamo ancora vent’anni e studiavamo Kant insieme, a casa di suo padre, discutevamo a lungo sull’esistenza del noumeno. Forse Mauro semplicemente vuole che io sia felice e ha il timore di mettere a repentaglio il sistema. Probabilmente è una persona onesta, per quanto non abbia mai conosciuto una persona onesta capace di rivestire ruoli dirigenziali.

«Pensi di aver creato una società libera?» chiedo, masticando del pane.

«Libera dal dolore e dalla vecchiaia, dalla povertà e dall’amore» dice lui versandomi altro vino.

«Allora perché sui muri della Città la gente scrive: restiamo umani

«Superstizione».

«Cos’è in realtà il ricovero?»

Mauro si pulisce ancora le labbra. Le ricreate servono la seconda portata, un piatto di pasta al pesce artificiale.

«Ti rendi conto? Una volta uccidevamo gli animali per mangiare, adesso abbiamo tutto ciò di cui abbisogniamo, senza ferire nessuno. È una società davvero libera, non esiste più il dolore. Forse è meglio questo che restare umani. Le persone che non riescono ad adattarvisi vanno al ricovero e, ti assicuro, sono più felici lì. Quel posto è una terra felice, dispensiamo chi soffre dal male peggiore: il pensiero».

Allontano il piatto e anche il bicchiere, fisso Mauro stordito.

«Come l’hai chiamata?»

«Terrafelice, il suo vero nome è Terrafelice, siete voi miscredenti che lo chiamate ricovero. La gente lì non è ricoverata, è solo in vacanza».

Ripenso al bambino di qualche ora fa, allo smistamento dell’Adrenoplus.

«Voglio farti un’altra domanda» dico.

«No, io voglio farti una domanda e ti pregherei di rispondere,» dice Mauro: «assumi antidepressivi?»

Diana si alza in piedi, passa le mani sul collo, sulle guance, sugli occhi. 

«È colpa mia,» dice, «ho sbagliato a somministrargli una dose troppo alta di neuremotal, per questo il test è risultato instabile. Ne faremo un altro domani». 

Arrivano portate di similpesce e frutta di marzapane. Finiamo di mangiare in silenzio, Mauro ha ordinato alle ricreate di dissolvere la musica. Io, Mauro e Diana ci osserviamo senza scampo. Mauro mi chiede di accompagnare la ragazza a casa ma prima che vada mi batte una spalla.

«Valerio mi ha detto che hai fatto fuggire un tale» sussurra. «Dimmi il suo nome e domani torni al lavoro».

Tutto il mio ingegno, la mia flemma e la mia noncuranza per la vita servono a placare l’impulso alla codardia. Invento un nome, un nome qualsiasi che domani non sarà rintracciato nei database. Per cui Mauro mi abbraccia, fiero per l’onestà, la fedeltà, l’onore, eccetera, ma io so che domani non dovrò presentarmi al Palazzo.

 


 

21.

 

In auto Diana lamenta l’odore dei sedili, non sanno di bruciato, come quelli dell’Arcavol, hanno un banalissimo tanfo di pelle. Ma i suoi occhi vogliono scucirmi altro, sono grandi, cilestrini e velati di ombre.

«Che c’è?» dico.

«Non portarmi a casa» dice.

«Non sei nelle condizioni di chiedermi un favore».

«Ti prego» mi stringe la mano che non è sul volante. Guardo le sue braccia sfregiate, penso a tutte le volte in cui ha tentato di uccidersi. «Ho fatto una cosa orrenda e non posso tornare» dice.

«E che avrai fatto di tanto orrendo? Hai somministrato la polverina della verità a tua madre?»

«Peggio».

«Peggio?» rido. Questa bambina potrebbe andare in giro armata e mi susciterebbe comunque una grande e antica tenerezza, dovremmo ucciderle prima che diventino adolescenti, dai tredici ai vent’anni sono dei mostri, suscitano in noi un tripudio di sensazioni contrastanti che vanno dalla dolcezza al desiderio sensuale. 

«Sai, la storia del ragazzo che mi ha tradita con la mia migliore amica?»

«Ricordo».

«È falsa. Come ti dissi mio padre mi ha abbandonata, mia madre dopo qualche anno si è messa con un altro di nome Bernard, mi hanno cresciuta con amore riserbandomi accoglienza, serenità ma forse la tristezza mi ha impedito di percepire il loro amore, in ogni caso, non mi è mancato niente, ho frequentato le migliori scuole, all’università mi consideravano un prodigio, sarei stata una grande biochimica ma qualcosa nella nostra ipotesi di famiglia si è guastata nel momento in cui il compagno di mia madre ha iniziato a riconoscere in me la donna. Sai, mi ha fatto studiare la scienza, aveva una smisurata passione per la fisica. I testi scientifici li studiavamo insieme. Bernard era affascinato dalla vita in ogni sfaccettatura. Una volta progettammo insieme un piccolo ordigno per sondare la composizione chimica dei pianeti. Era un genio e io ero attratta dalla sua passione. Mia madre si è accorta di questa complicità e ha iniziato a trattarmi con indifferenza, neanche mi salutava quando tornavo a casa. Poi si è inventata una malattia, non si alzava più dal letto, quindi le faccende domestiche toccavano a me, i piatti, i letti, pulire i pavimenti. Non mi restava tempo per studiare e Bernard ne soffriva. Le loro liti erano sfiancanti e ciascuno recriminava colpe che risalivano al fatto di aver deciso di vivere insieme. Lui era sempre più angustiato e sentivo il dovere di stargli vicino. Sembrava che l’unica sua consolazione fossi io: scoprirmi diversa dalla bambina che aveva incontrato, ritrovare in me una piccola allieva, diligente e assertiva lo rendeva orgoglioso. Gli piaceva che fossi diventata una specie di schiava e a me divertiva giocare con lui. Mi divertiva soprattutto sapere mia madre malata, distrutta da una prematura vecchiaia e approfittare del potere della mia adolescenza per mostrare una forza innata. Il gioco si protrasse oltre ogni misura. Fui io a provocarlo, oramai neanche mi vestivo più e lui mi seguiva con lo sguardo. Non so perché scelsi di portare tutto all’esasperazione, c’è in me una crudeltà sconfinata e non so da dove derivi. Ho questo desiderio morboso di distruggere, di portare tutto al limite, di far colludere le persone con i propri incubi. Così Bernard sentì di essere un uomo malato, irresponsabile, divorato da un istinto animale. Mia madre smise di alzarsi, vive come uno spettro. Io non torno a casa dal giorno in cui mi hai assunta. Ho dormito al Palazzo quasi tutte le notti, per cui, se proprio vuoi accompagnarmi da qualche parte, portami lì».

Attraversiamo la strada provinciale che circonda il quartiere alto e dieci alberi in sequenza ci scorrono davanti per poi sgretolarsi dietro il ruggito del motore, i grattacieli si colorano di raggi iridescenti e le Arcavol che ci attorniano planando sembrano navicelle spaziali azzurre e glauche, le stelle accese sono appena smorzate dalle luminarie rosse sospese nell’oscurità.

Ho un boccone troppo amaro in gola e non riesco a deglutirlo, vorrei salvarla dal suo demone e insieme sedurla, restituirle il favore.

«Tu hai subito un abuso» dico.

«No, Diogene, sbagli. Forse non capisci perché voglio morire. Sono io ad abusare degli altri. Sono io il mostro».

«Stronzate, è tipico dei borderline. Dovete sentirvi cattivi e punirvi, tentare il suicidio senza mai riuscirci. Volete solo attenzioni perché nel fondo di voi stessi vi sentite nullità. Sai chi ti ha fatto sentire così la prima volta?»

«Mio padre naturale, abbandonandomi».

«Aspetta un attimo, dove hai preso le chiavi per dormire al Palazzo?»

«Nel cervello».

«Le hai duplicate con una risonanza magnetica, capisco».

«Tu sai chi è il mio vero padre?»

«No, Diana. Te l’ho già detto, il mio ha fatto lo stesso».

«Magari sono amici».

«Magari sì, però, ascolta, non ti porto al Palazzo, non mi va che tu dorma in mezzo a tutte quelle macchine. Vieni da me».

Mi guarda, ricambio. Nelle pupille l’oscurità di una maledizione. 

 


 

22.

 

Entra in casa, si avvicina alla libreria. Sfoglia un volume di poesie di Antonin Artaud, lo ripone e prende una copia di Essere e tempo, sfoglia alcune pagine e lo lascia sul divano per prendere La Divina Commedia.

«È incredibile!» dice.

«Non ne avevi mai visti?»

«Sì, a scuola. Ho frequentato scuole di alto livello in cui si studiava su libri veri e Bernard ne ha una vasta collezione, niente letteratura però, tutti libri di scienze. Non immaginavo di conoscere un’altra persona con una libreria di questi tempi».

«Io ne ho diversi e anche Mauro, li tiene in una stanza secondaria, non vuole si sappia troppo in giro».

«Perché?»

«Sai, la lettura ormai è quasi un reato, una retrocessione».

«Ma non è lui a creare le leggi?»

«Lui segue la scia del progresso. A me il progresso non piace, ha qualcosa di malato».

«Penso ci sia sempre stato nel corso del tempo qualcuno che ha pronunciato frasi del genere».

«Sono d’accordo ma adesso siamo al limite, c’è qualcosa di disumano in quello che siamo diventati».

«E cosa siamo diventati?»

«Macchine, cyborg, androidi, non persone. La gente vive una doppia vita, anzi, vivono solo quella virtuale, in questa realtà sono diventati automi, vegetali».

«Il punto è: sei sicuro che questa realtà sia più vera di quella?»

«Anche tu la pensi così?»

«Per me non c’è scampo, io sono fottuta in tutti i piani».

«Non è vero, Diana. Sei una scienziata».

Ride. Si avvicina. Mi prende la mano e la lascia cadere. Guarda in me con un’intensità che è un oceano.

«Io sono simile a un morto che cammina in un labirinto e quel labirinto ha il mio nome».

«Perché ti detesti tanto?»

«Non merito niente» abbassa lo sguardo e si chiude in bagno per mezz’ora.

Busso e le dico dove sono gli asciugamani, chiedo venia per averla ferita, prego che non si faccia del male con i rasoi e dico che le voglio bene, che riconosco in lei una figlia. Esce e ha gli occhi del pianto. Restiamo un po’ sul divano, ho diversi dischi, archeologia anche questa. Ascoltiamo Brahms a occhi chiusi tenendoci per mano. 

«Non ucciderti, Diana, non ne vale la pena».

«Purtroppo non muoio mai. Posso solo ferirmi fino all’oblio».

Dormire con Diana è una tortura, non può fare a meno di sedurre, provocare fingendosi innocente. Non posso chiudere occhio, è evidente che ha deciso di rovinarmi la vita. All’inizio le lascio il mio letto e vado a dormire sul divano ma naturalmente si sente triste e si mette a singhiozzare. Vado a vedere cosa succede. È nuda, quindi mi copro gli occhi e le chiedo di rivestirsi. 

«No», dice. «Nessun problema. Vieni qui».

«Difatti, se permetti il problema è mio».

Mi abbraccia. Non è esattamente un chiodo, potremmo definirla in carne, anche forse leggermente sovrappeso, però ha la pelle di una diciottenne, il profumo di una diciottenne, il culo di una diciottenne, i seni appena accennati, le gambe tornite, e anche la sua pancetta diventa parte di un mix erotico esplosivo. Lei lo sa, sente la mia erezione e sta lì a voltarsi di continuo per un verso e per l’altro, sfregarmi il pube con il culo, con le cosce, con i piedi finché non le dico: «Lo sai che questa si chiama tortura?»

Ride. E sembra non abbia mai sofferto, è soltanto una sensuale fanciulla in fiore, che tradotto in termini realistici significa mostro, un mostro in grado di inghiottire ogni residuo di coscienza. Cedo, come vuole lei. L’aurora verdazzurra ci entra negli occhi attraverso le tende. Apro le cosce della piccola Diana e resto in lei fino all’orgasmo. Subito dopo mi alzo per andare in bagno ma soprattutto per non voltarmi e riconoscere nella donna che ho appena scopato una ragazzina. 

Quando torno in camera non c’è più, scomparsa. Dov’è? Sul divano? In bagno? In cucina? Sotto il tappeto? Si è nascosta tra i miei dischi? Tra i libri? Per quanto mi affatichi a cercarla lei non c’è. Apro la porta, imbocco la gradinata e vado giù in strada e anche qui non c’è nessuno, non tira un filo di vento, neppure il più piccolo rumore. Dopo qualche secondo mi accorgo di essere nudo e il portone si chiude alle mie spalle. Citofono qui e lì ma la maggior parte degli inquilini non risponde perché ha il servizio di riconoscimento automatico che fa suonare il citofono solo se il dna di chi preme corrisponde a quello di un amico o famigliare. Resto dunque nudo in strada per circa mezz’ora, poi sento dei passi, non capisco da dove vengano ma il martellare si fa sempre più vicino. Poi li vedo, due agenti recupero crediti in tunica blu, uno è Valerio, l’altro non so chi sia. Si avvicinano a passi marziali, senza neanche parlare, in queste condizioni non ce n’è bisogno. Mi ammanettano. 

«Non è colpa mia» dico. «È stata lei, l’ha voluto lei!»

Valerio mi guarda con un sorriso sarcastico: «Di cosa vai blaterando, Diogene? Noi abbiamo l’ordine di arrestarti perché sei un traditore».

«Un traditore?» mi volto.

«Certo, e lo sai benissimo».

I due si guardano, Valerio sussurra qualcosa all’orecchio del collega. 

«Vestiti, carogna».

Valerio ha le chiavi telepatiche, gli agenti recupero crediti hanno le chiavi telepatiche di tutti gli appartamenti della Città 207, se le sono fatte imprimere nella calotta cranica. Saliamo e arriviamo al mio portone, lui apre. Il collega di Valerio chiude a chiave guardando gli infissi, resta a osservare i libri sul divano.

«Letteratura? Filosofia, poesia, romanzi…» dice. «Ecco il messaggio dell’iperdrone».

«Dell’iperdrone?»

«Registrava le vostre conversazioni quando veniva a portarti la spesa, e la telecamera a rotazione ci ha fornito un set dettagliato di tutta casa tua e della tua, beh sì, della tua biblioteca».

«Cosa voleva da me l’iperdrone?»

«Nulla, loro non vogliono nulla. Registrano dati, tutto qui. Li registrano e li trasportano ai piani alti. È un meccanismo perfetto, non trovi? Poetico, oserei dire».

«Ho studiato filosofia senza pillole, sono stati anni duri ma è grazie ai miei studi che Mauro mi ha assunto» dico.

«Non è più permesso avere libri in casa, devono essere riposti negli archivi di stato» dice l’altra guardia.

«Da quando?»

«Da ieri, il presidente ha ordinato di sequestrare i libri dalle abitazioni».

«Il presidente è il mio migliore amico, sa che ho dei libri in casa».

«Sbagli, Diogene» dice Valerio. «Il presidente era il tuo migliore amico finché non hai fatto fuggire un disperso. Adesso è un tuo avversario politico».

«Come sarebbe avversario politico? Fatemi parlare con Mauro».

«Mauro non vuole parlare con te, ha ordito il tuo arresto» dice Valerio.

«Adesso vestiti» dice l’altra guardia «e poi andiamo, ci stai facendo perdere tempo».

Fino a ieri erano dei miei sottoposti, prendevano ordini da me ed erano passibili di licenziamento se disobbedivano, stavano zitti e abbassavano lo sguardo quando arrivavo al Palazzo, fino a ieri non avrebbero potuto permettersi neanche di lustrarmi le scarpe. Ora mi arrestano. Per portarmi dove?

«Non posso vestirmi ammanettato».

Mi accompagnano in camera. Valerio indossa i suoi occhiali connettivi e digita il codice che apre le manette, sono libero di muovere i polsi. Il primo indumento che trovo è la tunica termica, la indosso e prima che riescano a riammanettarmi un lampo febbrile m’investe. Sulla scrivania, verdi, lucidi, sfavillanti: i miei o.c. 


 

23.

 

Sibilla mi aspetta all’ingresso del serpentone, mi vede, corre ad abbracciarmi.

«Credevo di averti perso».

«Devi aiutarmi» dico. «Mi hanno arrestato».

«Lo so, hanno preso anche me».

«Ma come? E dove sei adesso?»

«Non lo so. Sono venuta a cercarti, ho gli occhiali».

«Anch’io».

«Non sfilarli».

«E se ci torturano? Se ci uccidono?»

«Finché siamo qui loro non possono niente».

«Devi dirmi una cosa, che significa Terrafelice?»

«Questo casermone è un luogo di resistenza, qui la gente vive in un altro modo. Non possiamo sottostare alle leggi della Città 207, abbiamo creato uno spazio libero. Nessuno conosceva questo posto finché tu e il tuo amico non siete venuti. Noi salviamo i dispersi prima che vengano ricoverati».

«Ma senza occhiali questo posto è vuoto, non c’è nessuno».

«Ma perché Mauro ha chiamato Terrafelice il ricovero?»

«Per confondere le acque. C’è stata una retata. Tutti abbiamo indossato gli o.c. Adesso siamo qui perché abbiamo gli occhiali ma potremmo anche essere altrove. Non tutti sono stati presi, solo io e altre dieci persone. Però con gli occhiali ho potuto avvisare i dispersi e si sono nascosti nel virtuale. Come vedi la tecnologia non porta solo male, può anche salvarci. Non devi togliere gli o.c., ricorda, non toglierli mai».

Assento. Entriamo. 

«Sopra non c’è più nessuno. Ci siamo nascosti nelle segrete. Adesso tutti i piani sono discendenti».

È buio, non si vede niente, camminiamo rasenti le pareti, prima di imboccare la gradinata che scende Sibilla mi dà una lanterna che ha preso dal pavimento. Accendo e i nostri volti sono scie rosse nel buio. 

«Tu discenderai in ogni piano e in ogni piano troverai qualcuno» dice. «Voglio che bussi a ogni porta e cerchi l’Uomo, questa memoria sarà il tuo bagaglio, la tua arma».

«Perché lo fai?»

Sibilla mi tocca il collo, ha l’odore di mia madre e ne avverto il tepore, siamo simili, incredibilmente prossimi, né io né lei possiamo fare a meno di rievocarla.

«Io ti ho insegnato la rivolta affinché tu sapessi ricordare. Ricorda i tramonti del Salento, le nostre meditazioni. Ricorda, Diogene, noi siamo un’unica cosa».

Mia madre mi aveva insegnato a usare i vecchi fucili, a cacciare. Il pomeriggio entravamo nelle grotte e ci mettevamo in ascolto. Lei mi parlava del serpente, del dio serpente e io sentivo lo spirito risalire le viscere. Mi pregava di ascoltare le stelle, il fuoco, la luce del sole. Diceva che un giorno queste entità sarebbero state dimenticate, sostituite con l’inganno della tecnica. Diceva che avrei dovuto conservare la memoria del mare, del sole, del fuoco e delle stelle. Le nostre meditazioni duravano a lungo, ce ne stavamo tra i graffiti neolitici, unici umani nella grotta, ascoltavamo le voci del passato. Mia madre era forte, di una potenza antica, conosceva molte lingue e aveva occhi pieni di ombre.

«Credi sia stato un incidente?» dice Sibilla con la voce di mia madre.

Una rabbia antica m’infiamma.

«Chi, mamma? Chi ti ha uccisa? Dimmelo».

Sibilla mi mette una mano sulle labbra.

«Non puoi vendicarmi perché lui è introvabile».

«Ma perché l’altra volta hai detto che io ti ho uccisa?»

«Non è stata colpa tua, hai solo cercato di salvarti».

«Non volevo farlo, senza di te mi sento vuoto, aiutami!»

Sibilla cade per terra, svenuta. Mi accovaccio, poggio la lanterna sul lastricato. Ha la fronte sudata e le labbra aperte, infilo le dita tra i suoi riccioli e le sollevo il capo. Devono averle fatto qualcosa di là. Tento di sfilare gli occhiali.

«No» sussurra, disarticolando le parole. «Qualunque cosa mi accada, tu devi proseguire».

«Non posso andare senza di te».

«Devi, Diogene. Prendi la lanterna e cerca l’Uomo».

 


 

24.

 

Frugo nella tasca e ingoio due compresse di Adrenoplus, nemmeno questo riesce a tenermi lontano da certi pensieri. Sono diventato inespugnabile, se sapessi ancora piangere ritroverei ciò di cui lamento la scomparsa ma piangere equivale a tornare integri, riconoscersi individui, sapere di essere ancora in grado di definire un io e un noi. Una volta qualcuno mi disse che la vera rivoluzione degli o.c. consiste nel vivere l’inconscio. Noi che possiamo ancora scegliere siamo la upper class delle nanotecnologie; talvolta penso alla vacuità dei cyborg, quelli con il sistema operativo intraneurale, costretti a essere costantemente a contatto con altre incoscienze, abitatori di sogni sventrati. 

Noi possiamo deliberare: ho una lanterna, posso scegliere se usarla o meno, posso discendere nel fondo di Terrafelice, scoprirne le segrete e poi sfilare gli occhiali nel momento in cui il mio inconscio produce mondi per me insostenibili. Apparentemente posso deliberare. In verità non posso più, se scegliessi mi troverei in prigione, scoprirei le torture che il vero Diogene sta subendo. Ora mi sembra tutto reale e quindi il vero Diogene non è reale, sono arrivato al punto di rottura: la totale dissoluzione del concetto di verità. Cos’è il vero sé? Il corpo? La tecnologia è riuscita a invadere il campo delle scienze umanistiche. Ciascun sé virtuale ha un corpo, per cui adesso sono altrettanto reale che nella presunta dimensione del vero sé. Ciò è in parte rassicurante in parte no, potrei non svegliarmi, potrei scegliere di cedere senza riserve al virtuale dimenticando il reale, potrei, come avviene, avere dei dubbi sull’esistenza del reale, e allora l’altro Diogene che fine farebbe? Siamo esseri cavi attraversati da maldestre fantasticherie, conduttori di pensieri. Nulla ha davvero senso se non il dolore, forse Diana si ferisce per questo, è l’unico modo per lei di sentirsi viva, anche il sesso è un coltello, una lama affilata con cui farsi a fette. 

Mi spaventa lasciarla qui sola ma preferisco seguire i suoi ordini: adagio sul ripiano del ballatoio il corpo di Sibilla in deliquio e scendo i primi dieci gradini. La lanterna manda una luce fioca e giallastra, il corridoio ha un tappeto stretto e lungo, ci sono otto porte di colori diversi. Apro la verde. 

Un nitore corrusco inonda il prato, è la prateria della mia prima esplorazione, vado avanti per un chilometro e non vedo altro che erba, ingoio altre due compresse. Oltre la prateria, un maneggio e una fattoria, cavalli, vacche e capre, un pastore con una camicia a quadri e un cappello di paglia cammina masticando tabacco, la mia lanterna gli illumina il volto dall’incarnato roseo. L’uomo porta sulla spalla un ragno con un minuscolo violino, e avvicinando l’orecchio sento sommessamente la sinfonia numero sei di Vivaldi. L’uomo sorride, le rughe gli arricciano le guance, i pochi capelli bianchi si muovono al vento.

«Crede sia strano, vero? Beh, lui non fa ragnatele, suona il violino. L’ho trovato nell’erba, era solo e me ne sono fatto carico. Tutto il giorno qui a suonare, mi ha fatto diventare un intenditore».

«Sono felice di non sentire la Psytrone, odio quella musica» dico.

«Qui nessuno ascolta altro che il passato, il futuro è bandito».

Sollevo la lanterna, gli illumino gli occhi già abbacinati dal sole, uno dei due è semichiuso e grigio, l’altro è scuro e apertissimo.

«Lei sa dov’è l’Uomo? L’ha visto da qualche parte?» domando.

«Sa, io devo pascolare il gregge, non m’intendo di filosofia. Un giorno, quando avevo diciotto anni, mi hanno abbandonato nei pressi del centro storico, mi sono messo a chiedere l’elemosina ma la gente non è abituata a vedere un uomo chiedere soldi. Hanno deciso di portarmi via di venerdì diciassette, erano in tre, forse sei, salimmo su un’Arcavol e planammo fino a un grattacielo altissimo. Lì il capo disse: Fermi, devo parlare con lui. Mi parlò e io dissi che volevo solo un posto dove stare, del cibo, pochi dineri e un amico. L’uomo mi chiese di tornare dopo tre giorni con un’idea, solo un’idea mi avrebbe salvato. In quei tre giorni vagai stordito per la Città e trovai Sibilla. Lei sapeva danzare, ipnotizzare e ascoltare. Ascoltò la mia storia e disse: A te serve solo un amico. Mi diede le pecore ma le pecore non mi seguivano, mi diede le vacche ma le vacche non mi ascoltavano. E poi ho trovato il ragno Violino. Quando suona, le pecore mi seguono e le vacche mi ascoltano. Mangio tre volte al giorno, ho lui e la musica, non ho bisogno dell’Uomo» dice.

Un capretto si strofina ai suoi pantaloni e il pastore lo accarezza, ha l’odore della terra, le margherite nel prato si muovono con il vento. L’uomo guarda in cielo e una nuvola grande a forma di teschio si scioglie in varie forme, diventa un cavallo, un uccello, trapassa l’orizzonte si sbriciola in altre mille figure.

Gli domando se anche lui come i bambini non ha nome. Ride ancora, il mento prognato e barbuto gli si allunga; si tocca la barba, i capelli, mi guarda con gli stessi occhi delle vacche.

«Faccia attenzione ai bambini: non hanno nome e non hanno identità, vivono di spaccio, traffico d’armi, sono felici così. Io sono Filemone, non ho bisogno di nulla, sono un mago e il mio prodigio è il ragno Violino».

Camminiamo ancora lungo la prateria, oltre c’è un bosco di aceri e Filemone dice di non potervi entrare. Racconta altri aneddoti della sua giovinezza, dice di aver giocato a lungo con carte, cappelli e bastoni.

«Soltanto un mago può sentire la melodia, guardare il ragno e riconoscere un musicista».

Per alcuni minuti resto immobile ad ascoltare e vedo le esili zampette impugnare perfettamente l’arco, e muoversi sapientemente come sospese nell’aria.

«La melodia posso sentirla anch’io, questo fa di me un mago?» dico.

Filemone ride e mi guarda con un sorriso privo d’intensità.

«Qui dentro tutti lo siamo. Tutti vediamo una parete che trema e vi proiettiamo desideri».

L’uomo si ferma sul limitare del bosco, qui devo proseguire senza di lui. Il desiderio che proietto su quel muro è di ritrovare Sibilla.

«Sibilla» dice «non è più lì, ti sta aspettando alla fine del viaggio».

 


 

25.

 

Entro nel bosco e il vento si fa voce, una voce flebile, di bambina, mi sussurra di non cedere, non temere, mi accoglierà, mi trasporterà fino alla fine del gioco. Mi muovo a tentoni nell’oscurità, arbusti urticanti scheggiano i polpacci; cammino nella sterpaglia, le foglie dei cespugli e le sterpe mi rigano i piedi. Ho da temere gli animali, i serpenti e i cinghiali. Non si sente fiatare, solo un cicaleccio ossesso, martellante, in mezzo ai tronchi una luce bianca, fuochi fatui. Ho freddo, i piedi avanzano sconnessi per via dell’altezza delle piante che li scheggiano. 

Mi viene in mente Mauro da giovane, eravamo due ragazzi svegli, anche troppo, in estate andavamo al mare lì dove mi portava mia madre, in Salento. Prima che Mauro abolisse i nomi dei luoghi avanzava nel governo una tendenza all’ordine, le città pur mantenendo il nome originario erano riqualificate, veniva loro assegnato un centro di potere, il Palazzo, e il centro storico era ridotto a un assemblaggio di rovine, a valore archeologico o museale. Mauro non era molto diverso da me, studiavamo come matti sui libri di filosofia, di teologia, d’arte, lui sui quelli di ingegneria emotiva; poi smise e iniziò con le pillole. Sosteneva tesi già per il tempo rivoluzionarie, alcune oggetto delle nostre discussioni pomeridiane in quello che una volta era il piccolo borgo di Sant’Andrea. Sedevamo sul bordo della scogliera, i piedi penzoloni verso il mare, lanciavamo pietruzze nell’acqua discutendo di massimi sistemi. «Immagina un mondo in cui tutte le infermità vengano abolite» diceva. «Immagina se gli anziani, i poveri, gli indigenti, i criminali, i disabili, i migranti, i malati, i matti trovassero collocazione in un unico grande luogo capace di accoglierli. Immagina il senso di una vita senza tragedie, un mondo sano». Aveva un diabolico fervore nello sguardo e continuava a scagliare pietre nell’acqua mentre fissava l’orizzonte. «Non esisterà mai un mondo del genere perché non troveremo mai un luogo abbastanza grande per contenerli tutti» dicevo. «Un luogo c’è già» diceva lui «è sotto i tuoi occhi ma non lo vedi». Non ho mai compreso il senso di quelle parole, soltanto mi domandavo perché gli premesse dividere il mondo in dispersi e incontaminati, perché questo orrore per la fragilità. «Ma, non capisci? Adesso siamo tutti contaminati, se invece arginassimo il dolore del mondo il progresso non avrebbe più limiti. Quel che ci impedisce di andare avanti sono le frange deboli della popolazione, se queste frange semplicemente non le vedessimo non potrebbero più contaminarci con i loro problemi, le loro malattie e sofferenze; raggiungeremmo un livello di benessere invidiabile. Dovremmo iniziare da Roma, caro Diogene, Roma sarà il modello di una nuova, inestinguibile, civiltà».

Forse ora comprendo il significato di quel linguaggio oracolare. Un tempo Mauro ebbe un esaurimento nervoso, credo si trattasse del padre. Ai figli dei ricchi capita spesso di non sentirsi all’altezza delle aspettative genitoriali, solo che lui credeva si trattasse di contaminazione: c’era una depressa nel suo corso universitario e lui sosteneva che il dolore fosse contagioso, si era ripromesso di estirparlo. Fu così che barattammo la vita con una messa in scena. Non sono dunque penso, il pensiero mi sradica dal reale, il bosco è un covo di antichi mostri e adesso, tutti, tornano. 

Sento qualcosa di freddo tra le caviglie. Non voglio vederlo, continuo a guardare avanti, tiro dritto finché non mi accorgo di una cosa tremenda. Attaccata a un ramo una corda nera, un cappio, un corpo che pende, i capelli biondi sul viso, il vestito nero strappato in modo da lasciarle l’intero busto nudo, i seni e l’addome costretti nelle spire di due lunghi boa. I serpenti stringono il corpo di Diana ma non abbastanza da ucciderla, il cappio non è così stretto e Diana scivola giù, cade tra le sterpaglie, i rettili l’avvolgono. Solleva la testa e i capelli liberando il viso ricadono sulle spalle.

«Sapevo che saresti arrivato».

Mi avvicino facendo luce con la lanterna, i boa puntano gli occhi triangolari e neri contro di me.

«E quelli?» 

Diana se li strappa dalla pelle e li scaglia contro un acero.

«Sono tornata a casa» dice. «Tutto è cambiato, non ha più per me la premura che ha avuto in passato. Al mattino mi ha vista per i corridoi e a stento mi ha salutata. È andato via alle nove dicendo che sarebbe andato al parco per una corsa mattutina, non mi ha chiesto se volessi raggiungerlo. Mia madre si è alzata dal letto, era lo spettro della sua depressione. Ci siamo guardate a lungo e non ci siamo dette una sillaba. È andata a preparare il caffè, guardando a terra ha chiesto quanto dovessi restare. Le ho detto che sarei ripartita subito, ora che ho un lavoro. Sono uscita. Non sono andata da Mauro, sono venuta nel bosco e ho trovato questa corda, era già qui, capisci? Per me».

«Vuoi ancora ucciderti?»

«Non c’è spazio nel mondo per me, io sono il sudiciume. Questo bisogno disperato d’amore mi porta all’abiezione, non sono degna di far parte di una civiltà».

«Ti sbagli».

«No, Diogene. Non è una volontà, è un dato. Se io tocco qualcosa, o qualcuno, distruggo. Nessuno può cambiare questo dato di fatto».

«Ti sei vista? Sei bella, aggraziata, giovane, faresti impazzire anche un santo».

«Sono stanca, credimi, sono stanca di sedurre e tentare di uccidermi per non morire mai. Non sono degna d’amore».

Mi avvicino ma Diana ha un fortore di fango, melma, le abrasioni sulle braccia e sul collo sono sporche di terra nera e viscosa, sa di essere diventata ripugnante e si allontana. I suoi occhi chiari nel buio scintillano, sono occhi di boa. 

«Non toccarmi, Diogene. Non devi toccarmi».

«Andiamo, adesso basta con questi infantilismi, Sibilla ti ha portata qui per aiutarmi. Tu mi hai messo nei guai e ora tu mi aiuti a venirne fuori».

«Chi è Sibilla?»

Mi viene da ridere, è impossibile adesso che le spieghi ogni cosa ma Diana si placa e riesco a prenderle la mano, non mi fa ribrezzo il terriccio e neanche il sangue. 

«È un piano altro» dico. «Nella realtà la mia amica Sibilla è prigioniera».

«Non puntarmi addosso quella cosa, diamine, mi accechi».

«Non sono più una psicoguida. Sono un disperso e lo sei anche tu».

Dietro di noi strisciano i boa, li sentiamo sibilare, Diana li afferra uno per volta e se li avvolge intorno al collo. Mi fanno senso ma lei non vuole separarsene.

«I miei unici amici» dice. «Cosa farei senza l’idea di poter essere strangolata in ogni istante?»

«L’abbandono, l’abuso, ti hanno fatto del male, Diana, sei solo una bambina».

«Non capisci, io non sono di questo mondo, in realtà non sono di nessun mondo. Lo specchio è un’arma deformante, io mi vedo marcire, quando fisso il mio volto a lungo si decompone. Il mio corpo è marcio. Io striscio sulla carogna cosmica».

«Vorrei poterti aiutare, fare in modo che tu ti veda con i miei occhi».

«A me non importano i tuoi occhi. Ho i sensi obnubilati, non c’è stato un istante nella vita in cui sia stata certa di essere al mondo. Tutti cadono, tutti sempre cadranno e io non riesco a sentire la vita in me. La seduzione è un’arma fiacca, sono scivolata in un luogo dove il pensiero è un coltello. Mi sto tagliando con i corpi degli altri. Ma cos’è un corpo?»

«Già, cos’è un corpo? Tu non sei solo un corpo».

«I miei corpi sono cenere. Ora sono questa cosa, il corpo di donna e il viso adolescente, questa cosa sudicia che vive nei desideri degli uomini. Non ho nessuna certezza sul mio conto, sono morta, vivo incollata alla morte, se solo mi riuscisse di uccidermi tutto sarebbe risolto».

Camminiamo ancora nel bosco di sterpaglie, Diana sa come difendersi dai serpenti, può afferrarli senza essere morsa o strangolata, ha il dominio sugli animali. 

Al culmine del bosco una luce bianca. Invischiata a un albero, come se qualcuno l’avesse incollata propri lì, la maniglia di una porta. L’apriamo e siamo di nuovo dentro il casermone. Scendiamo al meno due, anche qui otto porte di otto colori diversi. Apriamo quella blu.


26.

 

Oltre la porta, il mare, brezza e salsedine, siamo a riva, camminiamo spingendoci molto in là ma l’acqua al massimo raggiunge le ginocchia. 

«È una metafora» dice Diana. «Te ne sei reso conto? Ogni cosa in questo luogo lo è».

«E di cosa sarebbe metafora?»

«Un mare di cui non si vede la fine, senza limiti di sorta ma privo di profondità».

«Dimmi una cosa: dove sei nel mondo reale?»

«Non esiste il reale».

«Lo so che sei nichilista, volevo dire, sul piano materiale, il tuo vero corpo dov’è?»

Ride. «Te l’ho detto, sono arrivata in questo bosco per uccidermi».

«La te stessa che indossa gli occhiali, per la miseria, dov’è?»

«Non ho gli occhiali, Diogene. Io sono qui, intera».

Provo a sfilare la stanghetta ma dietro le mie orecchie non c’è più nulla. Sento la tachicardia incalzare, un calore violento alle tempie. Frugo nelle tasche e ingoio quattro Adrenoplus.

«Che fai?» dice Diana.

«Cerco di mantenere la calma».

«Hai paura?»

«Solo un suicida non l’avrebbe».

Ride ancora. «Te l’hanno mai detto che hai uno humor nero?»

La lanterna fa scintillare porzioni di mare quasi bianco, in lontananza una zattera; la raggiungiamo. Un uomo dalla pelle scura con un cappello di paglia e un secchiello che continua a riempire d’acqua. Non ci guarda negli occhi.

«Volete aiutarmi?» dice.

«A fare cosa?» dico.

«Io devo mettere tutto il mare qui dentro».

«Lei è l’Uomo?»

«È un eroe» dice Diana.

Lui la guarda, ha un sorriso sghembo, incorniciato da rughe labiali.

«Sono Odisseo» dice. 

Le passa il secchiello e le chiede di continuare, sembra stanco. Osservandolo bene si capisce che è malato, le gambe sono stanghe sottilissime e piene di abrasioni da cui emerge una carne sanguinolenta. Veste di stracci blu che coprono solo alcuni lembi di pelle.

«Perché vuoi mettere il mare nel secchiello?» dico.

«Quando l’avrò fatto avrò compreso l’infinito».

«Hai varcato le colonne d’Ercole, non ti basta?» dice Diana.

«Non ho smesso di soffrire. Vedete, ora il mare è calmo ma quando arriva la buriana non è così bello abitare gli abissi».

«Non eri tornato a Itaca?»

«Sì, ma poi siamo ripartiti, Itaca è stata bombardata, della reggia non restano che macerie. Penelope è morta, hanno perso tutti la vita in mare durante la buriana dell’anno scorso».

«E tu sei rimasto qui?»

«Non ho altro scopo».

Diana gli ripassa il secchiello, i boa vi guardano dentro.

«Odisseo, il secchiello è bucato, forse non te ne sei reso conto».

«Certo, lo so che è bucato, altrimenti non potrei continuare a riempirlo».

«Come sarebbe?» dico. «Sei qui da un anno? Non mangi? Non dormi?»

«Ma sì, tra poco raggiungo gli altri abitanti del mare».

«Dove?»

«C’è una cena sociale lì in fondo» punta il dito verso il sole. «Ora lasciatemi solo, debbo proseguire».

«Aspetta, c’è una cosa che voglio sapere» illumino il suo volto scarno e fagliato da rughe spessissime. «Dov’è Sibilla?»

Ulisse alza le spalle e continua a riempire il secchiello, l’acqua entra, lo attraversa ed esce lentamente in fili sottilissimi.

«Vi aspetta» dice senza guardarmi.

Cala nuovamente il secchiello e una creatura bizzarra, bianca e grigia, con la coda di pesce e il corpo insaccato in una busta di plastica, vi s’incastra dentro. Uno dei boa si allunga verso la creatura e la mangia, fa per aggrovigliarsi al collo di Diana ma cade a peso morto nell’acqua, striscia per qualche metro, si arresta e fluttua senza più apporre alcuna spinta. Altre di quelle creature biancastre galleggiano qui e là.

«Sono i pescibusta» dice Odisseo. «Non bisogna mangiarli, quasi tutta la fauna del mare è morta a causa loro».

Diana insegue il corpo inerme del boa, quasi lo invidia.

«Hai detto che Sibilla ci aspetta, ma dove?» dico.

Allungo la lanterna sul volto di Odisseo ma questi non mi ascolta e non mi guarda, scende dalla zattera e si aggira per l’infinita riva continuando a riempire il secchiello. Diana torna da me con l’altro boa che le striscia sul ventre.

«Potrei mangiare un pescebusta» dice.

Le do uno schiaffetto dietro la testa, il boa tira fuori la lingua biforcuta e lei gli mette una mano sull’aspide per evitare che mi si avventi al collo. Se solo potessi sfilare gli occhiali e ritrovare la realtà, invece sono qui con un’incantatrice di serpenti a cercare risposte da un poveraccio con un secchiello bucato. 

Camminiamo per chilometri nell’acqua fino al tramonto. Dove il sole cala c’è una lunga tavolata, arriviamo stremati. Questa gente ha la pelle scura o mulatta come Sibilla, la tovaglia è rossa e una donna anziana con un vestito a fiori distribuisce piatti di ceramica.

 


 

27.

 

Dieci persone ci aspettano. Un giovane mulatto, barba e lunghi capelli castani, tunica bianca, solleva il calice di vino, si fa chiamare Jesus.

«A Sibilla» dice.

«A Sibilla» ripetono gli altri.

Sediamo con loro. Il sole non tramonta, il mare è una lastra bianca che brilla dove i raggi la indorano, restiamo a fissare l’orizzonte. Forse questa gente è la sua famiglia o la sua memoria interrotta.

«Dov’è?» dico.

Jesus al centro della grande tavolata mi osserva accigliato, la pelle scura, levigata, gli occhi grandi, abissali, spezza un tocco di pane e da questo ne nasce un altro delle stesse dimensioni e poi un altro ancora e così con il pesce, finché non abbiamo tanto cibo da non sapere che farcene.

«Lei non può andare da nessuna parte» dice, «in quanto tramite, lei è sempre ovunque».

«Tu sei l’Uomo? Cerco l’Uomo, ma più accanitamente cerco Sibilla».

Le donne distribuiscono il pane e il pesce e non fiatano, guardano nei piatti come fosse un miraggio la moltiplicazione, restiamo a contemplarla, e torniamo a parlare di Sibilla.

«Non può abbandonarci, lei sa tutto» dice Jesus. «Qui non troverai l’Uomo perché noi siamo solo resti».

«Cos’è in realtà l’Uomo?» domanda Diana.

«Il tuo serpente non è il benvenuto, allontanalo da questa tavolata. L’Uomo è morto e voi l’avete ucciso».

«Noi?» dice Diana.

«Sì, voi: i vostri algoritmi, i vostri psicofarmaci, le vostre banche, le vostre tecnologie. Non mangerete il nostro pane e il nostro pesce. Mangiate il serpente se ne avete il coraggio».

«Cosa vuol dire che siete resti?»

«La terra ha tremato» dice lui, «il mare ha invaso il cemento, noi siamo il ricordo di chi è stato travolto».

Ripenso ai miei incubi di morte, il terremoto, il crollo e scivolo in una voragine; un morso allo stomaco, al di là della fame e della fiacchezza, c’è il ricordo di un mondo in frantumi.

«Tu sai cosa è successo a mia madre?» chiedo.

I commensali si voltano, ciascuno mi porge un pezzo di pane, un pezzo di triglia, acciughe o branzino.

«Perdonaci, Diogene» dice Jesus. «Tua madre era una mistica, è morta per rinascere altrove».

Le sue risposte mi angustiano e mi fanno precipitare in uno stato di contrizione, non riesco più a vedere il sole all’orizzonte ma una macchia oscura dal mare s’innalza e travolge lo sguardo, il sale in bocca, il mare negli occhi, nelle narici e in gola. È Diana ad aiutarmi, intorno una gran cagnara. 

«Devi mangiare qualcosa» dice.

Poggio una nocca al mento, cerco di restare calmo. Assaggio il pesce, è un sapore che mi riporta indietro, al Salento, a mia madre, ai tempi in cui nulla era sintetico e i sapori erano vivi. Jesus concede a Diana di mangiare in cambio del boa che trafigge con un coltello seghettato dal manico rosso, taglia la testa al serpente e tutti gli abitanti del mare si uniscono nel vederla rotolare. In lontananza Odisseo con il suo secchiello. Jesus gli va incontro e lo bacia sulle labbra.

«Andiamo via» dice Diana. «Questi sono selvaggi, non hanno alcun rispetto per la saggezza».

Diana mi prende per mano, mi trascina via controcorrente facendo leva sui polpacci, è seminuda. Frugo nelle tasche ma l’Adrenoplus non c’è più.

«Quando finirà il mare?» dice Diana.

«La superficie, vorrai dire».

«Non esiste altro che la superfice».

«Ti manca Bernard?»

«Mi mancano i miei serpenti».

«Penso tu sia finita in un inganno metafisico».

«Io non cerco l’Uomo, solo la quiete».

«Sei troppo giovane».

«Non è una buona idea innamorarsi di me».

«Non potrei innamorarmi di te neanche se m’implorassi in ginocchio».

«Sei un bugiardo», ride.

«Ho studiato abbastanza per riconoscere una trappola».

«Ci cadrai anche questa volta».

«Non costringermi a proseguire da solo».

«Non credo ne saresti capace».

«Vuoi scommettere?»

«La profondità è indipendente dal sapere, tu hai studiato tanto ma non conosci le emozioni, le temi e lasci che ti divorino. Io ho diciott’anni e so farti sentire inerme».

«Tu hai rinunciato alla vita».

«Non ho nessun timore».

«Non hai nessuna gioia».

«Neanche tu».

In lontananza decine, centinaia di pescibusta guizzano fuori dall’acqua, probabilmente il colore madreperlaceo del mare è dovuto alla loro presenza. Diana corre verso di loro, ne prende uno, l’ammonisco ma lei lo tiene stretto tra le mani, immerge le dita nelle pieghe di plastica e striscia la coda sul ventre. Il pescebusta grigiobianco batte la coda sull’addome della mia amica impavida, lascia striature azzurrognole sulla sua pelle. Diana stringe il musobusta con tale veemenza da riuscire a soffocarlo, la coda del pesce smette di battere, lo lascia scivolare in acqua morto.

«Fallo anche tu» dice.

«Sei una cretina! Non hai la minima idea di quali reazioni potrebbe provocare».

«Non capisci?» ghigna. «Io non ho paura di morire, è per questo che non corro alcun rischio. Mai».

Siamo lontani, lei tra i pescibusta, io immobile venti metri più in là, o in qua. Nell’immensa superficie marittima non esiste un qui e un lì, un ora e un poi, una contingenza e una trascendenza, è tutto simultaneamente immobile. Il divenire è una conferma della stasi, ripercorro gli arrovellamenti dei miei vecchi studi, riconosco il vuoto intrinseco all’esistente, studi che non sono serviti a nulla in un tempo in cui a nulla vale il pensiero. Alle volte l’immagine di mia madre s’impone senza riserve, questa memoria frammentaria mi resta addosso, è uno specchio in mille pezzi. Mia madre spariva nell’acqua, ogni volta credevo non sarebbe tornata, vedevo il suo corpo svanire tra le onde, raggiungere l’orizzonte. Girovaghi lungo le coste del Salento, di tanto in tanto trovavamo un santuario e lei si fermava a pregare. 

«Che fai?» dicevo.

«Mi abbandono» rispondeva.

«A cosa?»

«Solo la memoria della fede può riportarci alla ragione».

Le raccontavo i miei turbamenti e i dubbi circa il suo trasporto anacronistico, lei rispondeva: «Va bene, non ti ho mai chiesto di credere in Dio», ma voleva ricordassi le tradizioni. Restavamo ore a guardare gli affreschi nelle cattedrali, nelle basiliche a Galatina, ricordo, a Nardò. Mia madre entrava nelle chiese con un velo nero sul capo, dopo il segno della croce s’inginocchiava a occhi chiusi. Ascoltava voci inesistenti e la consideravo pazza.

«No, diceva. Non è follia ma spirito. Il passato ci parla attraverso l’arte e il futuro attraverso le profezie».

«Ma tu con chi parli?»

«Con il futuro, Diogene. Verranno tempi duri. La devozione non è follia, la vera pazzia è l’idea del progresso. La tua generazione sarà rasa al suolo».

«Perché?»

«Scambierete per verità solo le ombre delle cose, sarete gli uomini della caverna di Platone».

«Ma io cosa posso fare?»

«Tu mostragli l’inganno».

«Sacrificandomi?»

«Sarà un sacrificio comunque».

Il giorno del terremoto mia madre uscì in strada, prese la macchina e sfidò il sisma, accelerò più che potesse e andò a schiantarsi contro un camion, il camion conteneva munizioni. Esplose. Non so perché lo fece, potrebbe sembrare un suicidio, un attentato terroristico. Probabilmente conosceva il responso dell’oracolo, sapeva che sarebbe arrivata un’epoca funesta. Mi aveva mostrato l’illusorietà del suo lavoro, sosteneva che il parlamento fosse un ammennicolo nelle mani delle banche, infatti dopo il sisma fu smantellato e sostituito dal Palazzo, la moneta reale perse valore e solo chi avesse avuto accesso alla bor avrebbe potuto permettersi una vita dignitosa. Cosa fare di chi non poteva più permettersi la dignità? La risposta di Mauro fu semplice, chiara, accolta con clangore dagli incontaminati: ricovero.

Diana si allontana in una caligine lattiginosa, non ho modo di ritrovarla se non mi avvicino ai pescibusta.

 

 

 

 


 

28.

 

Che vi sia per ciascuno libertà di scelta è quanto di più illusorio avesse da insegnare la modernità, non c’è scelta nell’inettitudine, nessuna possibilità di deliberare se l’alternativa è avvelenarsi o riconoscere il crollo. Gettarmi nella tormenta è una forma come un’altra di suicidio, un modo per dire: sono esistito e ho affrontato l’orrore. Nella zona contaminata dai pescibusta la pelle diventa un rovo e s’infetta di pustole, prude, non posso fare a meno di grattarmi. 

La bassa marea è tale da non permettere al veleno di sprofondare negli abissi, perciò devo passarci attraverso, afferrarli quando tentano di mordermi, e soffocarli. Nella colluttazione getto via la lanterna e il mare si copre di una coltre scurissima, anche il cielo rabbuia. Non vedo più Diana e neppure i pescibusta; in memoria di mia madre faccio il segno della croce e aspetto di morire o svegliarmi in carcere. 

La marea si alza, nuoto al buio, inghiottito dai flutti di plastica, chiamo Diana ma non sembra essere qui. Nella tempesta rivivo vecchi ricordi, da bambino agganciavo la gonna di mia madre, lasciava che imparassi da solo a definire le cose. Entrammo in un bar dai divanetti rossi e la proprietaria le offrì il caffè, diceva che l’avrebbe votata alle elezioni; mia madre era algida, fiera. Quando mi prendeva in braccio mi sentivo protetto da una forza sovrannaturale. A dodici anni le chiesi di mio padre e disse: «Non domandarti mai nulla di lui, non c’è, non esiste». Non mi rivelò mai il suo nome però una volta disse che l’avevo conosciuto, mi aveva abbandonato quando ero molto piccolo. «Ha scelto un’altra famiglia, quella famiglia ci domina. Dobbiamo tenere fede ai nostri ideali, non c’è nulla di più alto».

Nuoto nel mare scuro e denso scansando i pescibusta nonostante il prurito, pezzi di plastica infetta divorano gli altri pesci, le alghe, i coralli. Le onde incalzano, si alzano e s’infrangono contro la roccia. Un’onda mi scaglia contro un faraglione, il busto e la gamba destra bruciano e sanguinano ma aggancio un pezzo di roccia e a fatica salgo sullo scoglio. La roccia è scura, grigia e appuntita. Una luce fioca mi illumina i piedi, la mano che regge la lanterna è di Diana. 

«Fine del giorno» dice.

«È colpa mia, sono io che l’ho persa».

«Non l’hai persa ma nelle mie mani non illumina molto».

«Perché?»

«Te l’avevo detto, io sono il principio negativo».

La pelle di Diana si è fatta a scaglie e squame. 

«Lo vedi?» dice. «Sono tutt’uno con me».

Tocco il suo addome, il derma è freddo, ha la consistenza della pelle di un serpente.

«Non sarà una reazione al veleno dei pescibusta?»

«È solo un passo verso il fondo». 

«Cos’è il fondo?»

«In me non esiste più nessuna scissione, sono tornata intera».

«Ma perché hai cercato lavoro al Palazzo?»

«Lo sai cosa voglio, ho l’assoluto dominio finché tu mi segui».

«Ho provato a lasciarti ma sarei annegato».

«Non sei annegato però».

«Volevo ritrovarti».

«Devi promettermi che alla fine del viaggio mi ucciderai».

Stringo il polso di Diana ed è freddo ma supero il freddo come prima ho superato i pescibusta e abbraccio la mia piccola amica dalla pelle di serpente. Le squame ventrali fredde sono fonte di refrigerio per le mie pustole e ferite. Diana mi stringe e infila le dita sotto la mia tunica ormai lacera. Il suo tocco è gelido ma non per questo meno salace. Il suo bacio è ferino, ha la lingua sottile e gli occhi si fanno stretti, inguardabili, ma non riesco a sottrarmi. Lascio che le sue mani mi tocchino. La lanterna per terra illumina piccole porzioni di carne. Diana s’inginocchia e mi prende il cazzo in bocca, massaggia il prepuzio con delicatezza e poi succhia più forte. Quando sto per venire si frena per poi ricominciare. È un’esperta, una strega. 

Sale su di me, perdo ogni freno, ho la schiena trafitta dalle rocce ma chiudo gli occhi e godo fino al parossismo. Le dico parole che non avrei mai pensato di dire. A lei non importa la volgarità, per lei ogni cosa è destino.

Riprende la lanterna dal fondo della roccia e proseguiamo per un lungo tratto al buio, uno spicchio di luna e otto stelle irradiano fiocamente la tenebra. Al culmine del faraglione una scala di sei gradini, un muro e una porta che ci fa ritrovare nel casermone. Il pavimento è diroccato, di cocci sconnessi. 

Scendiamo al meno tre e apriamo la porta rossa.


 

29.

 

 

Un corridoio in penombra conduce a una sala settecentesca, affrescata: sul soffitto è dipinta un’Annunciazione in stile tizianesco. Le pareti hanno l’odore del legno. Quattro tavoli rettangolari in mogano, quattro piccoli uomini, non esattamente nani, omuncoli calvi e di bassa statura. Ripetono un sussurrio che crea un’unica voce simile a una preghiera. Ai lati della sala altissimi scaffali raccolgono la più ampia varietà di scatole culturali, ce ne sono in compresse, in gocce e in supposte. Diana si avvicina al primo dei piccoli uomini, mi fa cenno con la mano di raggiungerla.

«Aaleniano» dice l’uomo fissando il vuoto: «aggettivo, singolare, maschile, dal nome della città tedesca di Aalen, nel Baden-Württemberg. Piano geologico del periodo giurassico inferiore (Lias), tipicamente rappresentato nelle marne e nei calcari ferruginosi del bacino di Parigi; vi appartengono anche le miniere di ferro della Lorena e, in Italia, i calcari marnosi del monte Baldo (tra il lago di Garda e la valle dell’Adige)».

«Che cosa sta dicendo?» chiedo a Diana.

Alza le spalle, avanza, si accovaccia per ascoltare il monologo del secondo omino.

«Babà: sostantivo singolare, maschile, tipo di dolce di pasta soffice, in forma di piccolo cilindro (ingrossato a un’estremità come il tappo usato per lo champagne), oppure anche a una ciambella, fatto con farina bianca e lievito di birra, uova, zucchero, e inzuppato dopo la cottura in forno, quando è ancora caldo, con uno sciroppo a base di rum o cognac. Babacòto: singolare, maschile, adattamento di una voce malgascia, nome indigeno di una proscimmia della famiglia indridi del Madagascar».

Qualcuno si avvicina dal fondo della sala, ha un andamento rapido e sghembo, claudicante, la statura non superiore al metro e venti, il capo completamente nudo, senza sopracciglia e con occhi color grafite, azzimato come per un’occasione galante.

«Vedete, signori, sono gli Uomini-Vocabolario, maschi o femmine, non importa, quel che conta in loro è la capacità di riproduzione meticolosa dei significati. Sono ventisei, ciascuno di loro ha ingollato una compressa corrispondente a una lettera del vocabolario e conosce a memoria ogni vocabolo che inizia per quella lettera».

Diana si porta avanti di due tre tavoli e interroga uno a caso di quei siamesi: «Nelumbo» gli grida nell’orecchio. Quello senza guardarla, sempre allampanato e rigido come una cassaforte scandisce: «Nelumbo: soggettivo maschile, in latino Nelumbo o Nelumbius, adattamenti di una voce singalese. Genere di piante acquatiche della famiglia delle ninfacee, con due specie delle regioni tropicali e temperato-calde, coltivate anche in Europa come ornamento: Nelumbo lutea dell’America settentrionale, con fiori gialli, e Nelumbo nucifera (conosciuta col nome di loto, loto indiano o nelumbio) dell’Asia, con fiori rosei del diametro di circa 25 cm; entrambe presentano un tipico frutto che ricorda la forata di un annaffiatoio in quanto superiormente presenta grossi buchi contenenti i semi, amiliferi, commestibili, con sapore di anice».

«Zigantro» dice Diana.

Quello resta in silenzio e dondola indefesso sulla sedia.

«Non lo sa» dice il responsabile. «Ha assunto solo la compressa enne, per la zeta dovete raggiungere l’ultima sala».

«Ma a cosa serve?» dico.

«Signore, qualcuno doveva pur farlo».

«Ho capito, ma si tratta di una conoscenza parziale, mnemonica, sterile, priva di reale utilità fosse pure velleitaria».

«Signori, qui tutti possono consultare un Uomo-Vocabolario in ogni momento, il loro è un sacrificio, vedete, nessuno di loro ha altra vita se non questa, si alzano solo per mangiare ed espletare i bisogni fisiologici, per il resto loro sono qui, fermi, statuari, a ripetere a memoria l’immensità della lingua. Ci sono molte varianti, ciascuno di loro conosce molte lingue e ogni lemma di ogni lettera in ogni lingua. Chi lo dice che debba servire? A Terrafelice nulla serve davvero, anche l’Italiano ora non ha più significato fuori di qui ma noi abbiamo deciso di ricordare, perché viviamo nel passato».

«Ha detto che si fermano per andare in bagno?» dice Diana. «Dov’è? Ne avrei bisogno».

«In coda all’ultima sala» dice l’omino.

La preghiera di lettere si solleva come polvere, ne siamo investiti e fluttuiamo in una gragnuola di parole che si annientano. L’ultimo uomo dell’ultimo tavolo chiude la dimensione degli Uomini-Vocabolario con la parola: «Zygion: singolare maschile, propriamente singolare neutro derivante dal greco ζυγ(ωμα), zigomo. In antropometria, punto craniometrico corrispondente alla massima prominenza laterale delle arcate zigomatiche».

In fondo a destra, la porta bianca. Diana entra, aspetto che finisca ma per dieci minuti non torna; la raggiungo. Oltre la porta bianca non c’è un bagno ma un nuovo piano del casermone. Diana, accovacciata, orina per terra.

«Voltati» dice irritata. Lo faccio e mi ammonisce: «Aspetta, va’ via, devo fare anche altro». 

Dovrei anch’io ma trattengo finché posso e scendo al piano successivo dove mi vedo costretto a posare la lanterna, alzare la tunica e farla sul pavimento. 

Mi raggiunge e siamo entrambi nevrastenici per via delle condizioni igieniche e il fetore, saltiamo un piano, ne raggiungiamo un altro con un’unica porta, nera, colossale, dai bastioni in pietra; per entrare dobbiamo ruotare tre volte una chiave di ferro imbrattandoci di olio scuro e catrame. 

30.

 

Diana mi passa la lanterna. È buio, riesco a illuminare solo brandelli di corpi, un piede, una mano, un pene. Faccio oscillare la luce e mi accorgo che i brandelli sono mozzati. Mi volgo indietro, Diana, più impavida di me, fa slalom tra i lacerti.

«Loro sono ancora vivi» dice.

«Chi sono loro?»

«I dimezzati».

Il nitore della lanterna illumina una stanza che ha l’aria di una sala d’aspetto, diciotto persone aspettano senza guardare, illumino gli occhi ma sono stati cavati. Alcune di queste persone non hanno un piede, una mano, delle dita, altri si torcono con una ferita sanguinolenta tra le gambe. Sono per lo più anziani e aspettano.

«Perché gli hanno fatto questo?» illumino i volti senza occhi.

«È arrivato» dice un uomo privo di arti. «È arrivato il filosofo».

Sembra usare questo termine in accezione derisoria.

«Non troverai qui l’Uomo. Non troverai che resti».

«Perché?» dico.

L’essere che ha parlato sogghigna con voce gracile, esaltata. 

«Non siamo forse nella culla dell’abisso?»

«Che significa?»

«La nostra esistenza è scaduta. Il male ci ha deturpati. Ciascuno di noi ha sacrificato un pezzo di sé per la scienza».

Inorridisco. «Come sarebbe per la scienza? E di quale male parli?»

«Del Signor Tempo. Nessuno ha il potere di fare all’altro qualcosa che l’altro non desideri o in qualche modo non conceda, il male ha colpito coloro che non apprezzavano la vita».

«La tua visione è deprecabile. Esiste l’ignoranza, da parte vostra, e la manipolazione, da parte del potere tecnico-scientifico».

Ride di nuovo con la sua voce arrochita.

«Che cos’è il potere?»

«Il potere è chi decide che un’esistenza debba scadere».

«Che sciocco umanista, Diogene. Non hai compreso ancora molte cose. L’esistenza scade da sé, non la si può arrestare fintanto che non si possa arrestare il tempo. Noi abbiamo un solo sovrano, il Signor Tempo, lui falcia ciò che non è più utilizzabile».

«Chi è? Presentatemelo, avrei qualche domanda da fargli».

Alle nostre spalle si leva un vento di tramontana secco e freddo, un uomo con una rete gravida di pesci, gobbo e cieco, ha ancora gli occhi ma sono bianchi e non guardano in questo mondo. Cammina trascinando la rete e tossendo di tanto in tanto, una tosse cavernosa, antica, che viene da molto lontano. Avvicino la lanterna per illuminare la rete e vedo qualcosa che vorrei subito dimenticare. Non sono pesci ma bulbi oculari, centinaia, migliaia di occhi spalancati e immoti.

«Sei tu che hai cavato gli occhi a questi signori?» dico.

Diana mi stringe un polso, avvicina le mani al mio orecchio sinistro, dice qualcosa che non comprendo. Il gobbo si volta, come volesse guardarmi, ma dal bianco delle sue iridi viene solo gelo.

«Ho preso i loro occhi perché non volevano più guardare».

«Cosa? Dimmelo, vecchio mostro».

Il gobbo rivolge le iridi bianche al cielo e le labbra in sei pieghe di rughe lasciano andare un barbuglio sussurrato.

«Non volevano vedere il futuro poiché era manifestamente funesto, voi non lo sapete ma la vita è diventata marcescente. Loro si sono rifugiati nell’attesa. E io ho raccolto i resti. Non sono cieco, non del tutto, io vedo l’insieme».

«Che significa l’insieme?»

«Io vedo la tua morte simultaneamente a questo istante».

«E dimmi, Signor Tempo, come morirò?»

Il gobbo continua a trascinare i bulbi nella rete e poi ne estrae uno particolarmente piccolo, dall’iride verde foglia, vi guarda dentro e sbuffa, tediato.

«Tu morirai in una strada desolata dell’undicesima dimensione».

«Che diavolerie vai blaterando? Cos’è l’undicesima dimensione?»

«Vedi, Diogene, stai cercando qualcosa che non esiste, tu sei qui perché non vedi la fine. Io so che l’umano è trapassato e lo sanno anche questi signori a cui ho cavato gli occhi».

«Non ti bastavano gli occhi, vedo che hai amputato anche altro».

«Un organo non funzionante è sintomo di una persona scaduta. Qualcuno studia il modo per evitarlo. Non sono esseri umani quelli che ci sopravvivono».

«E cosa? Cyborg? Ma i cyborg hanno pur sempre qualcosa di umano».

«Cyborg è solo un modo umano per chiamare le creature dell’abisso. Senza nulla togliere alla tua visione, le creature dell’abisso possono essere simultaneamente nelle undici dimensioni. Non soffrono, non gioiscono, la loro esperienza è pura, separata dalle sensazioni. Se una creatura dell’abisso decide di morire muore senza soffrire oppure cambia dimensione. Nessuna creatura dell’abisso riconosce l’umano come suo simile. Questi signori hanno sacrificato le loro disfunzioni all’abisso».

Il gobbo cammina ancora trascinando la rete e i bulbi oculari s’irradiano quando li illumino, avviluppati tra le maglie strette della rete blu. L’uomo entra nel buio e la bora smette di soffiare.


31.

 

Attraversiamo l’atrio buio e raggiungiamo la porta gialla del piano, Diana la apre, faccio luce con la lanterna. Il sole ci schiaccia gli occhi, è basso e arancio, il tuorlo di un uovo mastodontico, il lastricato è scosceso, caracolliamo aggrappandoci di tanto in tanto l’uno all’altra. Inizio a pensare che il mondo in cui mi trovo sia definitivamente separato da quello in cui è Sibilla, non so quali torture stia sopportando e se sia ancora viva. Le tasche della tunica sono vuote ma non ho realmente paura delle conseguenze di questa caduta, non credo di aver più bisogno dell’Adrenoplus e non credo in realtà di averne mai avuto bisogno, la separazione dal reale mi appare lapalissiana e priva di valore, giacché ogni cosa qui smette di significare anch’io smetto di apporre un peso all’esistenza del principio di realtà.

«Pensa» dico a Diana «che disgrazia per Mauro non conoscere questo luogo».

«Chi ti dice che Mauro non lo conosce?»

«Se lo conoscesse sarebbe venuto a cercarci qui».

«Mauro ha molte più qualità di quel che pensi».

«Che tipo di qualità?»

«Per esempio ha preso in mano il crollo di una nazione, e poi è bravo a letto».

Mi fermo e resto attonito a fissare la ragazza con la pelle di serpente. Sembra che il suo corpo sia ricoperto da una guaina di boa, non ha quasi più nulla di umano, e nel contempo devo constatare che le pustole infette, le abrasioni provocate dai pescibusta, sono scomparse sia su di me che su di lei.

«Ti sei scopata Mauro?»

Abbassa la testa e guarda altrove, per quanto sia difficile guardare qualunque cosa con il sole che ci tramonta negli occhi.

«E allora perché non sei rimasta con lui al Palazzo? Che cosa vuoi da me?»

«Non è difficile immaginare il giorno in cui gli uomini si scanneranno per il ribrezzo di sé stessi, in cui la noia avrà ragione dei loro pregiudizi e delle loro reticenze, in cui scenderanno in strada a estinguere la loro sete di sangue e in cui il sogno distruttore, protratto per generazioni, diventerà quello di tutti».

«Che pillola culturale ti sei mangiata?»

«Diogene, siamo condannati a sopravviverci».

«Brava, bel discorso, adesso però voglio che mi spieghi perché devi scopare con tutti?»

«Non lo so, succede e basta, se un uomo vuole il mio corpo non posso esimermi dal concederglielo, in fin dei conti è solo un corpo».

«Cos’è un corpo?»

«Un involucro vuoto nel mio caso, l’anima l’ho ingoiata, aveva il sapore del cianuro».

Mi madre una volta mi disse che avremmo fatto i conti con il tempo senz’anima, dove tutto sarebbe diventato pura fisiologia. È arrivato il tempo degli assassini, in cui rigurgitiamo l’essenza di noi stessi e ci trasciniamo in un tramonto senza fine. Siamo noi a tramontare, senza profondità, consumeremo il corpo fino a estinguere ogni desiderio ma diversamente dagli induisti o dai buddisti l’estinzione del desiderio non coinciderà con un alcuna illuminazione, nessun nuovo cominciamento apparirà all’orizzonte, saremo solo esseri cavi, svuotati, proprio come i dimezzati; se a loro è stata amputata una libbra di carne a noi è stata amputata l’anima e non c’è verso di porre rimedio a tale menomazione, nessun rimedio che non coincida con l’assunzione di una responsabilità irreversibile, quella di aver reso l’uomo una propaggine elettronica, un bit stonato in un’armonia cibernetica di cui non rappresenta più l’emissario.

Lascio indietro Diana e corro verso il sole, a occhi semichiusi per non lasciarmi accecare, corro sul lastricato di ciottoli sconnessi e inciampo e cado. Per terra larghe radici di alberi si strappano via dal suolo, allignano fin sotto questo malriuscito tentativo di pavimentazione. La ferita sul polpaccio non provoca che un leggero bruciore, in realtà mi è di sollievo rispetto allo strappo che ho dentro, una ferita immonda che coincide con l’inesistenza del reale o con l’annichilimento della mia stessa psiche. Diana mi raggiunge mentre sono fermo, ginocchia per terra.

«Ehi, stai bene?»

«Senza anima si muore e basta o si vive morti».

«Sono contenta che tu riesca a empatizzare con me, ora forse puoi avvicinarti a comprendere perché voglio morire. Alzati».

Lo faccio. Davanti a noi due carri usciti dal ventre del sole, ci avviciniamo ma svaniscono come paraidolie notturne. Dopo i carri cinque donne scure, orientali, inondate dai raggi vespertini, danzano muovendo il bacino, lo disarticolano come una porzione non collegata al resto del corpo.

«Senti la musica?» dice Diana.

In effetti la sento, distante, portata dalla bora. Un tamburellare ossesso che si traduce in sinuoso gioco di strumenti, cytar e flauto. Tra le danzatrici del ventre c’è Sibilla. Corro da lei.

«Ti ho ritrovata» urlo. «Dov’eri? Cosa ti hanno fatto?»

Mentre cerco di afferrarle un braccio la sua sagoma si dissolve in fumo. Dietro le immagini evanescenti, accovacciata e avvolta da una rete che le lascia scoperte le parti intime, una donnina mora con i capelli a caschetto e gli occhi scurissimi. Muove le mani come avesse un’arpa ma dalle sue dita non effonde alcuna musica, la musica si estingue nel vento. Con la lanterna illumino la donna accovacciata.

«So chi sei, Diogene, e so della tua amica» indica Diana. «Io sono Arakne. Mi hanno condannata a tessere immagini che scompaiono».

«Non si trattava di una tela?» dice Diana.

Arakne ride. Labbra sottili, pelle chiarissima, aroma speziato.

«Nei tempi antichi» dice. «Ora tesso ologrammi, sono tutti i ricordi che ho. È l’amore che mi ha imprigionata».

«L’amore?» dico.

«L’amore è uno spettro agganciato ai chiodi che hanno il nome dell’Uomo, l’estate passa e i corpi smettono di sentire. Ora non tesso più una tela perché il mio corpo ha perso sensibilità, sono evanescente come i miei ologrammi».

«Chi è l’Uomo?» dico.

«Il male necessario affinché la donna smetta di sentire».

«Ma dov’è? L’hai visto da qualche parte?»

«L’ho conosciuto, sì, ma adesso mi ha abbandonata, così come ha abbandonato il mondo. Non siamo che spettri, danziamo nella nebbia di un tramonto inestinguibile».

«Perché il sole è sempre allo stesso punto? Perché non arriva la notte?»

«Qui tutto è cristallizzato dal giorno in cui mi hanno portata via. Mi hanno tolto ogni cosa perché lui non ha voluto proteggermi. L’eternità è la durata di un istante ripetuto infinitamente. Io sono condannata a rivivere l’istante. Lui aveva già un’altra e io non ero che un divertissement, la Donna mi ha condannata e l’Uomo ha eseguito il suo volere. Quell’Uomo voi lo conoscete».

«Lo conosciamo, dici?»

«Molto bene».

«Perché?» dice Diana.

«È il padre della civiltà».

Diana mi guarda confusa, i nostri corpi si mischiano all’intensità della luce e non riesco a individuare l’inizio del suo volto o la fine delle mie gambe. Non mi vedo più le mani, ho le braccia mangiate da una spira di polvere densa di pulviscoli.

«È più potente di ogni altro. È lui che ha creato tutto, è lui che divide i dispersi dagli incontaminati».

«È Mauro Viale» la interrompo.

Ride. «Vi sbagliate, Mauro è solo un emissario dell’Uomo che ha decretato la fine del tempo».

«E, dimmi, non potremmo trovarlo qui da qualche parte?»

«Qui? Oh, no, qui ci sono solo fuggiaschi. Qui siamo tutti visioni».

«Visioni? Vuoi dire che tu non sei reale? Sei un prodotto della mia mente?»

«O tu della mia?» dice Arakne. «Forse anche voi siete solo parte delle mie tessiture olografiche e tra breve sarete tutt’uno con il sole».

«Sarebbe bello» dice Diana. «Fosse così facile svanire».

Oltre il sole è l’orizzonte, e sotto c’è il mare. Lasciamo Arakne alle sue tessiture e andiamo verso la spiaggia, voglio guardare l’imbrunire nell’acqua.


32.

 

Diana e io ci aggrappiamo all’orizzonte, lo tiriamo e lo lasciamo molleggiare. È una corda bianca che divide la bassa dall’alta marea. Dove il mare è più profondo si alzano, immensi, i salici. L’acqua ingoia il sole. Catene d’argento, le onde.

«Sono stanca» dice Diana. «Ho sonno e fame».

«Da quanti giorni non dormiamo?» 

«Ho perso il conto».

«Io non ho appetito e non ho neanche sonno, è brutto segno?»

«Credo di sì, credo tu stia affrontando un passaggio di stato».

Le gambe sono quasi del tutto scomparse, fuse con il rosso dilagante, tutt’uno con il cielo; mezzo volto di Diana è sovraesposto.

«Dici che verremo cancellati dal sole?»

«È una possibilità ma non me ne curo».

«Ho paura».

«Serve a poco».

«È una punizione».

«Ragioni in termini religiosi».

«Mia madre era molto credente, probabile mi abbia trasmesso delle…».

«No, hai paura di vedere. Preferisci una teoria, per te tutto è teoria».

Abbiamo due possibilità: tornare indietro o nuotare, di nuovo nuotare, ma non so se si possa nuotare con gambe invisibili, e non so se si possa tornare indietro senza mezzo volto. Siamo stati superati dalla visione, ingoiati in un vortice di assurdità. Pensavo che la Città 207 fosse assurda ma Terrafelice la supera di molto. Non so se sarò in grado di prendere una decisione e frattanto probabilmente moriremo qui, tramontando, aspettando l’inattendibile. Nelle civiltà in declino il crepuscolo è il segno di una nobile punizione. Devono aver provato questo gli antichi romani durante il crollo, una tremenda sensazione di stasi, qualunque scelta si sarebbe rivelata erronea. Mi dolgono le ossa, le ossa cederanno al tramonto, cadranno come cadrà questo sole nel mare, deglutito dagli abissi. Non che non sia affascinante, ogni forma di agonia lo è, ma preferirei guardarla in uno schermo che viverla sulla pelle, sulle ossa. Nessuna verità ha più vita e di nulla più si può dire se sia realtà o visione, veglia o sogno, e con questo ogni possibilità di discernimento è abbattuta. Diana cos’è? Una donna? Un animale? Una dea? Una scienziata? Una bambina? Una diciottenne capricciosa? Una vittima del compagno di sua madre? Al momento è solo la mia instabile compagna di viaggio e da questa instabilità dovrò ricavare l’equilibrio. Gettarsi in mare non costa nulla, mal che vada si annega. Annegheremo? E se annegassimo saremo davvero morti o solo traghettati in un altro luogo dell’inconscio? In un nuovo sacrario del desiderio? Il panico ha invaso le poche membra rimaste, non avremmo mai dovuto cedere alle lusinghe della tecnologia, non avremmo mai dovuto iniziare il gioco. Non sono più certo si tratti di un gioco, temo che il luogo in cui siamo finiti sia una gigantesca cassa di risonanza dei desideri e delle paure dei viventi, o di ciò che resta di loro. Non sono sicuro si tratti solo di rifugiarsi lontano dal Palazzo, probabilmente il Palazzo non è mai esistito. Siamo stati battuti da una percezione troppo ampia, un atto di hybris ci ha permesso di varcare confini inammissibili, giocare con l’orizzonte è un lusso per divinità pagane, a me sarebbe bastato guardarlo. O forse no, forse non è così, il desiderio si sostanzia con l’avvento del possibile, se una cosa è possibile allora il desiderio si traduce in bisogno. Non avrei avuto bisogno di toccare l’orizzonte se non ce ne fosse stata la possibilità, ecco tutte le risposte che possiamo dare alla scienza: l’orizzonte è una corda tesa tra due infiniti, che separa la bassa dall’alta marea, ci si può fermare e morire nel mezzo oppure scegliere di affrontare l’abisso.

«Diana, dobbiamo nuotare».

Lei alza le spalle. 

Ci buttiamo in acqua e raggiungiamo il punto in cui non tocchiamo più, nuotiamo verso il sole, siamo parte di un paradosso, o ne siamo il fulcro. Due gambe invisibili non sono poi una pessima cosa, sono leggere, molto leggere, e mi permettono bracciate più ampie.

«I pescibusta?» dice.

«Non ne vedo».

Nuotiamo e nuotiamo, non c’è un pesce, uno scoglio, un’alga, solo lo sconfinato nitore dell’acqua e questo sole basso, immobile. Percorriamo l’equivalente di cento vasche e non vediamo terra, l’orizzonte stesso è sparito, il cielo vermiglio è lo specchio del mare. Le membra cedono, non abbiamo più fiato.

«Credo che moriremo» dice Diana senza curarsi del peso di queste parole.

Non ho molto da opporre, non ho modo di dimostrarle il contrario. Diana si stende a pelo d’acqua, si lascia andare al lieve sobbalzo delle onde, la pelle di serpente si raggriccia, gli occhi chiusi sono invasi dal rossore della luce.

«Che fai?» dico.

«Aspetto».

«Di annegare?»

«Precisamente».

Mi muovo spasmodico disarticolando il busto, mulino braccia e gambe, non mi pongo il problema dell’invisibilità ma quello della durata. Quanto a lungo posso resistere? E Diana? Forse ore, forse tra otto ore saremo sul fondo.

«Non ci hai fatto caso? I pescibusta sono spariti ed è ricomparsa la profondità, che metafora è?»

«Non lo so, Diana, io voglio vivere».

«Il solito pusillanime!»

«Pusillanime? È solo volontà».

«Io mi sono arresa alla noluntas».

Do altre bracciate, venti, trenta, ho freddo, tremo, il mare è vischioso, non c’è nulla qui, nessuna forma di vita, nessuno a cui appellarsi per chiedere aiuto. So cosa intende Diana con noluntas, solo, non capisco come possa accettare di buon grado la morte. La mia fine non coincide con la fine del mondo, questo è vero, ma è pur sempre la fine del mio mondo o del mondo per me. Non m’interessa l’esistenza nella sua interezza, non sono in grado di comprenderla. A me importa ciò che possa entrare nella mia sfera d’azione. Se annego adesso per me il mondo finisce. Cosa ci sarà dopo? Un altro me? Un non-io? Una coscienza che non ha memoria della precedente? O forse erro, forse non c’è nient’altro che questo imbrunire, l’idea della fine è infinita. Non moriremo, resteremo qui, in eterno, aspetteremo. Ma cosa? Cosa stiamo aspettando se la morte non esiste? Cos’è questo mare? E questo sole immenso che invade l’orizzonte? Io non so se posso sopportare l’infinito, io non so se contemplare questo cielo possa sradicarmi. Non so più se fuori dall’acqua avrò il mio corpo. Ho sempre creduto di essere un corpo, noi non abbiamo un corpo noi siamo il corpo, è possibile? No, dacché esistono i cyborg l’osservazione è del tutto incongrua. Noi siamo tutte le emanazioni del possibile. Adesso questo corpo mi abbandona, si separa da me, e io lascio che vada, che si estingua, che anneghi o si dissolva, dopo ci sarà dell’altro, io sarò altro, vivrò qualcosa che al momento non posso immaginare, mi abituerò a una nuova forma, rivivrò un confine. Cosa farò se invece dovessi ricordare tutto? Se questa esistenza in cui sono intrappolato non dovesse dissolversi? L’angoscia è il principio della presa di coscienza, non posso fermare il flusso, il cerchio si ripete ma nelle stesse acque non ci si bagna. 

Giù, giù, nell’abisso, per quanto provi e riprovi a muovere le braccia non ho più forze, non più braccia, non più gambe, non sono neanche più di carne, e non respiro, il mare ha riempito ogni parte, la pelle, il naso, le labbra. Scivolo nell’azzurro, giù nel fondo. Duro poche boccate e poi smetto, raggiungo una quiete che non credevo possibile, accetto il destino.


 

33.

 

Apro gli occhi e respiro, i muscoli atrofizzati, busto e braccia stretti da una corda, è buio, è notte, non c’è l’orizzonte, sento solo passi ma non vedo nessuno.

«Diogene» è Diana, legata a me di spalle.

«Siamo vivi?»

«Dal male che mi fa la schiena direi di sì».

«Puoi muoverti?» 

«No. Tu?»

«Neanche».

I passi s’intensificano e ne sentiamo molti, alcuni più sottili, altri profondi come colpi, quando alzo gli occhi riconosco qualcuno che ho già visto: è il bambino che mi ha venduto l’Adrenoplus, ha un cappuccio ed è vestito di nero, un manico d’acciaio sporge da una custodia agganciata ai pantaloni.

«Signore, lei ha varcato un confine irremeabile. Non è consentito giocare con l’orizzonte, superarlo e restare vivi».

«Consentito da chi?» dico.

«Da Dio» dice.

«È ancora vivo?»

Il ragazzino mi si avvicina e sussurra: «Nessuno deve saperlo ma sì, è vivo e tiene prigioniera Sibilla».

«Ma chi è Dio?»

«La domanda è malposta, deve riformularla correttamente».

«Non posso, nuotando ho perso la lanterna».

Il ghigno scimmiesco gli allarga di molto la bocca torcendo la pelle.

«Non l’ha persa, signore, i miei l’hanno ricuperata negli abissi. Se vuole scusarmi».

Si allontana e torna con una bambina di circa sei anni, bandana rossa in testa e occhiali scuri, e un altro, poco più grande, interamente coperto da un passamontagna nero che regge la mia lanterna.

«Ora può riformulare la domanda».

«Dovrete Slegarlo» dice Diana, «come terrà la lanterna sennò?»

I bambini si guardano tra loro e fanno qualche passo verso di noi.

«Gliela reggerà lui» dice il primo bambino indicando quello con il passamontagna.

Passamontagna mi si accosta e illumina il volto di Cappuccio di modo che io possa domandargli: «Chi è l’Uomo?»

«È Dio, l’Uomo è Dio».

«Mi prendete in giro? Un attimo fa, cioè un giorno, no, forse è trascorso di più, bene, insomma, Arakne mi ha detto che l’Uomo è morto e noi l’abbiamo ucciso».

«Arakne vive qui dall’eternità, ha qualche problema a riconoscere le linee temporali» dice il bambino con il cappuccio.

«Voi non l’avete ancora ucciso» dice la bambina con la bandana. «Per farlo dovrete comprare delle armi».

«Noi abbiamo le armi» dice il bambino con il cappuccio.

Passamontagna tace.

«Ma se volete che compriamo da voi delle armi, perché non ci slegate?» dice Diana.

«Perché non avete soldi, né dineri, né bor. La vostra esistenza vale meno di zero e dunque non potete comprarle».

«Allora che si fa? Restiamo legati a vita?» dico.

Cappuccio ride. Gli altri due gli fanno eco.

«Sapete dov’è diretto questo cargo?»

«Un cargo» rifletto, ricordando la mia cabina di comando, il mio studio.

«Rispondete!» dice il bambino col cappuccio.

Passamontagna mi dà un calcio in pieno volto.

«No, non possiamo immaginarlo» dico.

«Lo so bene, voi adulti non avete più un briciolo d’immaginazione».

«Nell’undicesima dimensione?» azzarda Diana.

I tre ridono ancora e continuano a torturarci con schiaffi e calci in faccia.

«Va bene, ve lo dico io: questa nave è diretta a più infinito. Ciò significa che non incontrerete né l’Uomo, né Sibilla» dice il bambino col cappuccio.

«Cosa c’è a più infinito?» dice Diana.

«Che domanda idiota! L’eterno ritorno» risponde la bambina con la bandana.


 

34.

 

«E a meno infinito?» domando.

Bandana sorride, non so che occhi abbia, indossa occhiali da sole molto scuri, ma temo non siano rassicuranti.

«Tutte le tue paure» dice.

«A cosa vi serve tenerci prigionieri?» dice Diana.

Cappuccio estrae dalla guaina una calibro 38 e si avvicina a lei. Non lo vedo più.

«Fai troppe domande».

Muovo il torace in modo da testare la resistenza delle corde, non riesco a fare granché, respiro a fatica e muovo le dita delle mani.

«Per uccidere l’Uomo abbiamo bisogno del vostro aiuto» dico.

Passamontagna mi illumina con la lanterna. Cappuccio si sposta verso di me e mi punta l’arma al collo.

«Perché?» dice.

«Perché voi» arranco stretto dalla pressione del ferro sulla gola «siete più forti di noi».

«Noi gratis non facciamo nulla» dice Bandana e poi si accovaccia accanto a Passamontagna. Entrambi sfilano occhiali da sole e passamontagna, posso guardarli, hanno iridi bianche come meduse. Un brivido, una scossa di ribrezzo. 

«Siete ciechi?»

«Siamo veggenti» dice lei.

Il bambino con il cappuccio preme il grilletto, rilascia il cane e una pallottola si conficca nella mia gola. Diana urla.

Poco per volta li vedo snebbiare, rarefarsi, diventare ialini, non sento un acuto dolore alla carotide e non perdo sangue, semplicemente il cranio pesa il triplo del normale e i bambini raddoppiano in una potente diplopia. 

«Cos’è?» urla Diana. «Cosa gli avete sparato?»

«Metildiossidocarboketozepam» dice Bandana. «Un potente narcolettico che lo lascerà in orbita a lungo».

Chiudo e riapro gli occhi. Chiudo e riapro gli occhi. Chiudo e riapro gli occhi. Sono in uno studio medico, credo, in un letto immerso nell’acqua c’è un un monitor. Sibilla mi guarda attraverso uno schermo.

«Diogene, va tutto bene, ci sono io con te» dice.

«Sibilla, dove siamo?»

«Non devi temere. Presto tornerai anche tu».

«Ma chi sono quei bambini? Perché mi hanno sparato un neurolettico?»

«Devi capire una cosa, questa è solo una trasfigurazione».

La stanza gira e Sibilla è snebbiata, intorno vedo miliardi di puntini, macchie solari, quanti, non saprei definirli altrimenti, ogni cosa è simultaneamente viva e morta.

«Ma tu stai bene? Non sei prigioniera di Dio?»

Sibilla ride.

«Ciò che in te appare mostruoso, dall’altra parte è minimo».

Puntini, macchie viola, invadono la sua figura, a poco a poco ne cancellano i tratti, e la fisionomia muta in una pioggia di pulviscoli luminosi. Un odore dolce di cardamomo si propaga nell’aria. Adesso è anziana, il naso all’in su e le palpebre gonfie, le labbra sottili, il mento prognato di mia madre.

«Diogene, questa è una guerra strana, dove nessuno vince, nessuno perde, tutti andiamo incontro alla dissoluzione perché abbiamo rimosso l’essenza».

«Sei tu, ora capisco, era una metafora, mamma, sei tu a essere prigioniera di Dio».

Mia madre ride.

«Dio non fa prigionieri, non ha catene, io sono una serva del Signore per mia scelta».

«Che significa serva del Signore?»

«Esistono due modi per vivere, o si è servi della tecnica, o si è servi di Dio».

«E la libertà? Cos’è per te la libertà?»

«Ho agito sconsideratamente in nome della libertà. Mi chiamavano terrorista perché credevo nella libertà ma adesso, Diogene, adesso sono tornata alle origini. Solo Dio può perdonare».

«Ma è un’illusione, non te ne rendi conto? Il tuo Dio è un’illusione, un insensato anacronismo. Adesso l’unico Dio è l’Uomo».

Mia madre si riempie di chiazze rosse e quelle chiazze diventano pulviscoli, le cambiano ancora i tratti e sul suo volto s’imprime un altro.

«L’Uomo non ha nessun potere, non quello che credete voi. È anche lui schiavo dei Confessori. L’Uomo è solo un emissario».


 

35.

 

Non si sente più lo scrosciare delle onde, davanti a me non c’è più il mare, oltre il ponte di comando, in lontananza l’oscurità della notte è sporcata da macchie verdi. Ancora non sono lucido, chiamo Diana e non riesco ad articolare le parole.

«Sono tutti al timone» dice. 

«Dov’è finito il mare?»

«È proprio questo il problema».

Le macchie verdi si fanno più grandi nel corso della navigazione fino a diventare giganteschi numeri a sei, sette, otto cifre che mutano costantemente.

«Sono bor» dice Diana. «Stiamo navigando nella moneta virtuale».

La nave traballa, scombussolata come in preda a un sisma. Le onde sono diventate numeri, sono verdi e cambiano continuamente.

«Cambiano perché cambiano gli algoritmi. Ciascuno di quei numeri rappresenta il valore di ognuno di noi».

«Deciframeli».

«Non mi va».

«Forza!»

«Ci siamo anche noi, noi valiamo 200 bor, per questo ci hanno catturati».

«Dove sta scritto?»

«Lì, non vedi?»

Un Due grande quanto un frigorifero mi si scaglia contro e si dissolve in una nube verde, seguono due Zero. 

«Ma non vedi che sono… sono polvere!»

«Vallo a spiegare ai ragazzini».

Siamo invasi da nuvole di fumo verde, numeri che si vaporizzano, cambiano consistenza, aumentano e diminuiscono di uno, due, tre zeri, mutano cifra. Ecco un Tre e un Nove, una fila di Zeri polverosi ci sbattono contro, ci avviluppano in un fumo denso, cavernoso. Io e Diana iniziamo a tossire. Man mano che i numeri ci attraversano la nostra massa muscolare si riduce, operazione già in corso nella stanza del tramonto. Disintegrazione vuole che la massa legata diventi così sottile da non riuscire più a essere costretta nella corda, riesco a uscire dai nodi, a sgusciare fuori, e così Diana.  Sul pavimento in legno della nave strisciamo sempre più decomposti, non ho più gambe né l’addome, Diana ha la pelle di un boa ma le mancano viso e braccia, camminare le riesce meglio di quanto non riesca a me; ho ancora la funzione prensile. Si accovaccia, le salgo sulle spalle aggrappandomi con le braccia. Raccolgo due fucili appesi alle scialuppe di salvataggio, lei li mette in un sacco di canapa che raccolgo per terra e corre fino a poppa. Siamo quasi arrivati al bordo, pronti a lanciarci nelle nubi verdi quando Cappuccio mi mette le mani sotto le ascelle e Passamontagna trascina Diana per i capelli. Infilo le dita negli occhi del bambino con il cappuccio, glieli cavo. I bulbi cadono e rimbalzano come uova sode. Il bambino si dimena per terra. Ruzzolo giù.

Nella colluttazione smettiamo di vedere, le nubi verdi ci gravano sulle palpebre; anche i mocciosi sono assediati dai numeri, intrappolati in catene di fumo cifrato, non riescono a trovare il modo per accedere alle armi, dobbiamo batterci a mani nude senza vedere altro che pruriginoso fumo, ci fa tossire e bruciare gli occhi, anche in quelli ormai invisibili di Diana.

Ricordo il tiro con l’arco, a Porto Badisco, con mia madre, lei mi lasciava per svariati minuti con le braccia teste a scoccare, morivo di caldo e sudavo e le mosche mi ronzavano intorno e le zanzare mi pungevano ma «Fermo, Diogene, devi stare fermo. Respira e poi scocca. Non fiatare. Non guardare altro che il bersaglio. Resisti alla tentazione di grattarti, asciugarti il sudore o scacciare gli insetti. Resisti. Incassa i colpi della natura. Scocca» diceva. E io scoccavo. Qualche volta facevo centro. 

Adesso sto fermo, incasso i colpi di Passamontagna e Bandana. Lasciali, Diogene, dico a me stesso, lascia che si sfoghino. Si stancheranno. 

Sono le braccia di Diana, lei è le mie gambe. Unico essere cieco e dimezzato, richiamiamo le forze, l’energia del serpente.

Ancora un ricordo della Grotta dei Cervi, mia madre in meditazione. «Sai cosa sono questi?», mi tocca il pube, l’addome, il petto, la gola, la fronte e il centro della testa. «Sono chakra. Quando il serpente si sveglia i chakra si aprono e tu sei simile a Dio».

«Non credevi in un solo Dio?»

«Credo in molte manifestazioni di Dio. Tutte le religioni hanno avuto da insegnarci il grande salto».

«Cos’è il grande salto?»

«Il salto oltre la logica. Non puoi battere la tecnica con la logica, la logica è dalla sua parte. Puoi batterla solo andando oltre. Oltre la logica è la mitologia».

Quando siamo un unico essere, io e Diana, siamo l’energia del serpente, l’oltre-logica che sfida i limiti della materia. Un unico essere, maschio e femmina, umano e animale, uno e bino. Oltre la logica noi abbiamo le pistole e spariamo, i bambini si dimenano per terra atrofizzati dal metildiossidocarboketozepam.

Saliamo sul bordo del cargo, a poppa, scavalchiamo, ci arrampichiamo allo specchio e ci lanciamo nell’oscurità.


 

36.

 

Nel nero profondo caroliamo in granuli di polvere verde, nittalopi, scavalchiamo il buio e nel precipitare troviamo un appiglio, sono specchi, frammenti di specchi, tagliano ma impediscono di andare a picco. Ne stringo uno tra le mani e sento il sangue stillare dal palmo, se spalanco gli occhi vedo esseri di fumo, l’aria della caduta soffia contro i corpi, ho perso la mano di Diana. Gli esseri di fumo soffiano aria stigia contro di me, la tunica bianca si riempie di strappi.

Sono in coda uno di seguito all’altro, indossano larghi mantelli incappucciati, sono sostanze plasmatiche fosforescenti, erano numeri e ora sono spiriti. Arrestano la velocità del mio precipitare, in uno dei brandelli di specchio vedo Diana, la pelle di serpente e il volto straziato, gli occhi chiusi, sangue sulle labbra, ha il corpo intero, nessuna parte cancellata. Cerco di urlare il suo nome ma in questo stato della materia la voce non trova via di fuga.

Gli esseri di fumo in processione mi attraversano, tra gambe fluttua lo stesso vapore verde che compone le loro figure. Parte del mio corpo è ancora di carne e d’ossa, le restanti non hanno consistenza, sono spire di vapore.

Non precipito più ma siedo nell’aria di fronte a un grande specchio composto di frammenti, il riflesso è smerigliato, troppi frantumi a dividere il volto. Osservandomi senza riconoscermi mi chiedo cosa sia l’identità.

Uno degli esseri di plasma solleva una pietra alle mie spalle, mi volto e nelle mani non ha nulla, posso guardarlo solo nel riflesso.

«Tu pensi sia una pietra» dice. «Ma questo è il divenire».

La pietra grigia diventa rosa e nel rosa sorgono impietose crepe simili ai frantumi che dividono lo specchio, nel rosa minerale stilla un fluido nero e le mani fosforescenti dell’essere spaccano la pietra, la superficie riflettente s’infetta di nero, il liquore scuro sgorga insieme al sangue sul mio palmo.

«Chi sei? Fammi uscire di qui» dico senza parlare.

«Noi siamo i Confessori» dicono in coro. Hanno voce metallica, sembra il lamento funebre di una legione di monaci. I Confessori in processione mi attraversano e si vanificano nello specchio, tornano a essere numeri, cifre verdi su uno schermo, lo schermo non è più intero.

Sotto le frattaglie della parete riflettente una donna dalla carne mulatta si contorce danzando ma la musica non arriva, si sente solo lo scalpiccio dei piedi su un pavimento di vetro. Se mi volto Sibilla non c’è, c’è solo nello specchio e danza. I piedi si scheggiano di sangue. Mi viene incontro e si avvicina ai frammenti fino a mostrarmi il mio riflesso nelle sue iridi.

«Stai andando bene, non temere, sta andando bene, la tua coscienza si amplia».

«Ma il mio corpo scompare».

Sibilla sorride. «Il corpo scompare quando dubitiamo. Non sei un dimezzato, stai scindendo materia e spirito. A me questo non potrebbe accadere».

«Siamo divisi, tu e io, io e Diana. Dove siamo? Dove sei adesso?»

Il sorriso è quello di una madre, mi guarda attraverso lo schermo, nei suoi occhi il mio viso si allunga.

«Io non sono così distante da te, è lo stato della nostra coscienza a essere diverso ma siamo vicini. Non fidarti di Diana, lei non si sveglierà».

Mi volto, cerco Diana ma ci sono solo i Confessori in coda che camminano verso lo specchio, lo attraversano e ridiventano numeri. 

«Dov’è Diana? Che significa non si sveglierà?»

Sibilla si allontana in circonvoluzioni di bacino, muovendo la testa tra le mani giunte, si allontana trascinandosi nel vuoto.

«Infilzati il petto, non temere il sangue» dice il Confessore che mi ha parlato prima. Si separa dalla processione e mi cinge le spalle. Sotto il cappuccio non c’è un volto né una maschera ma vuota sconfinata tenebra. Nelle mani stringe un chiodo ma se lo guardo meglio è un pugnale.

«La mia lama è precisa: un istante e puoi vincere dolore, rabbia e disperazione».

Il Confessore mi mostra nel buio una lucina verde, un davanzale e vetri spalancati.

«Tu puoi svegliarti da ogni incubo; lanciati, la mia finestra è una salvezza: sul selciato in un microsecondo ti schianterai insieme con l’assurdo».

Dello stesso verde, accanto alla finestra, un cappio sospeso per aria.

«Ti aspetto da sempre, conosco il tuo tormento, la tua rabbia, la tua insonnia, la paura e ho giocato a dadi con le immagini dei tuoi sogni. So che vuoi urlare, ti compiango e ti offro una via d’uscita. Sei nato per impiccarti perché disdegni ogni risposta e soluzione».

Abbandono lo specchio, con queste gambe di vapore verde cammino verso il cappio. Una vita virtuale può essere spenta da una corda virtuale? Le cose che immagino si materializzano, si palesa lo sgabello per salire sul patibolo e, mentre appoggio il collo al cappio in procinto di spingere via il rialzo, rivedo lo specchio in frantumi e nei frantumi i lineamenti di Diana. Diana apre gli occhi.

«Addio Diogene» dice.

Sfilo il cappio e corro verso di lei che è riversa su un pavimento di specchi infranti tutta avvolta da nebbia fosforescente. Urlo il suo nome ma tra me e Diana appare un Confessore di spalle, di cui vedo solo il lungo mantello.

«Lei non può amarti, ama il suo carnefice, e tu non puoi competere con la potenza di un carnefice. Se stai svanendo è perché il tuo valore di scambio sta precipitando, è quasi zero, non hai più valore in bor. Stai svanendo perché nel lato oscuro della rete non significhi più nulla. Qui la materia non significa nulla».

Il Confessore spalanca le braccia per impedirmi di vedere Diana, di salvarla o di riprenderla con me. Anche le mie mani sono fosforescenti. Tutto il mio essere fisico si sfracella in vapore. Non ho più voce.


37.

 

«Diogene, dov’è la tua lanterna?» dice il Confessore.

Nelle mie mani di nebbia non c’è. Non vedo altra luce che quella del vapore. La mia esistenza è pregna di spettri che devo ogni volta trafiggere. 

«E i tuoi amici? Che fine hanno fatto?»

Non erano amici ma pensieri. Tutti gli abitanti di Terrafelice erano pensieri che si sono manifestati in visioni. Se ciò fosse vero anche il Confessore non sarebbe che un’idea. Quando amavo Alicia ero atterrito dal pensiero di perderla, dal dolore accecante di un suo rifiuto. Quando amavo Miranda in fondo all’amore c’erano i soldi che le davo per stare con me. Ora che amo Diana in noi alberga la morte. E se anche Diana, Sibilla, Miranda, Alicia non fossero che pensieri?

Lo spettro di mia madre abita ogni cosa, la pervade, mi pervade. È impossibile superarla, la morte rende il pensiero inestinguibile. 

Diana crede che il problema sia il compagno di sua madre ma lui non è qui; scommetto che se non stesse a rimuginare su quell’uomo starebbe male per altro e se dovessi lottare con tutta l’alterità che la distrugge lei troverebbe ancora qualcosa per soffrire e non appartenermi. 

Il problema sono io, siamo io e lei, non riesco neanche più a toccarla, da una parte il desiderio e dall’altra il ribrezzo, la sua pelle di boa mi ripugna. Mi sembra di rivivere la morte di mia madre o l’abbandono di mio padre, di cui non ricordo altro che un odore, un odore di uomo che c’era in casa e poi non c’è più stato.

Diana è la carne dello stesso abbandono. Non vedo più il desiderio nei suoi occhi. Con me fanno sempre così, appena provo a fidarmi mi rifiutano, non mi desiderano più, smettono di starmi accanto, scappano, hanno paura. Diana scappa, ha paura. Ha resistito finora solo per dimostrare a sé stessa che ce l’avrebbe fatta, invece non è vero, non ce la fa, non ce la farà, con me chiunque è sconfitto. I mostri che ho dentro feriscono gli altri. Divorano. 

Perché nessuno riesce a vedere la mia anima? 

In realtà l’anima non esiste, ho prodotto un mondo mostruoso di cui Diana è prigioniera. Se il mio universo è pregno di spettri, soltanto io posso dissolverli. Il cuore di Diana è freddo, morto. Lei voleva farsi fuori e per caso è finita nel mio incubo ma non l’ha chiesto, non l’ha voluto come non vogliono esserci i dispersi che ho mandato al ricovero.

Ho debellato i fantasmi, ricacciandoli nelle cripte dell’incoscienza, ma sono più forti, più potenti di ogni mia scelta, per loro non ha valore la medietà, la giustizia. Vogliono il sangue, il mio sangue. Quel che releghiamo all’invisibile torna sotto forma di incubo e dilania.

Non abbiamo quasi mai dormito, quasi mai mangiato. Perché? 

«Non hai bisogno di nutrire uno spirito fiacco. La redenzione è un passo verso il fondo», dice il Confessore.

Ho peccato, perdonami. No, non potrai perdonarmi, per te il peccato non ha nessun valore. E mia madre è stata un’illusa, per lei la religione era il legame con il tutto, non aveva considerato che il tutto era una sua allucinazione. 

«Puoi ancora ucciderti se ne hai il coraggio» dice il Confessore, mostrandomi la corda, la finestra, il pugnale, il chiodo.

Ucciderei i pensieri, voglio morire ma non voglio uccidere i pensieri, le creazioni della mente che mi fanno compagnia, non voglio annientare l’invenzione che ho costruito con meticolosa pazienza. 

Adesso il mondo viene a franare e il pensiero stesso vacilla mentre mi dissolvo in vapori fluorescenti. Un giorno racconterò ridendo la storia della mia pazzia, e di come ho desiderato donne immaginarie, esperienze ultraterrene. Adesso sono ingabbiato nella cella del mio stesso pensiero e non posso liberarmene se non con un’azione che vinca l’assurdo.

Sono sgusciati fuori, i pensieri. Hanno costruito al mio posto qualcosa che io stesso non sarei stato capace d’immaginare. Voglio eludere il pensiero e tornare nel corpo, tornare corpo. Che il mio corpo torni intero!

Il Confessore si dissolve in un fumo verde che si fa fuliggine e poi scompare. Non c’è il corpo di Diana riverso sul pavimento di vetro frantumato ma una porta, una porta fosforescente.

Le mie mani tornano mani, così le braccia, le gambe, l’addome, i piedi; sono ancora di carne e sangue, afferro la maniglia e apro.


 

38.

 

Luminarie, centinaia di luminarie attaccate a fili che vanno da una parte all’altra dell’interno, una filza di luci accese; puzzo di urina, scale fatiscenti, oscurità. Sono tornato nel casermone, non ho idea del piano, la rampa di scale prosegue sia in alto che in basso. Il mio corpo è integro, le gambe sono tornate solide. Come prima, su ogni piano ci sono otto porte di colori diversi ma sono stanco di entrare in mondi assurdi. Dal momento che sono qui, probabilmente a metà strada, continuerò a scendere. I piani sono vuoti, uno identico all’altro, le porte hanno gli stessi colori di quelle dei piani precedenti, non c’è nessuno e non si sente un fischio, solo il gocciolare tremulo del soffitto nei punti in cui il cemento ha ceduto e la muffa, l’umidità, la concrezione, hanno preso il sopravvento. 

Un piano dopo l’altro, scendo, e mi sembra di non trovare mai l’ultimo. La ringhiera è arrugginita, man mano che scendo l’aria si guasta, un fortore di muffa insudicia le pareti. Dei topi squittiscono, li vedo attraversare il corridoio, avanzo fino al meno dieci, lo riconosco perché un’insegna in grafite reca il numero dieci; avevano detto fosse l’ultimo e invece si può scendere ancora e ancora e ancora. 

Al meno tredici ritrovo le anziane che filano con acribia su un antico filare, mi guardano e ridono. Saluto ma loro non alzano neppure una mano.

«Quanto è profondo l’edificio?» chiedo.

Una risata in cui risuona l’anancasmo, le rughe fitte sui volti dall’incarnato terreo conferiscono alle donne un’aria ubbia e tetra.

«Quanto credi che lo sia?» risponde una di loro con un vocino stridulo e arrochito.

«Non lo so, sembra non finire mai».

«Solo il destino dell’uomo è finito, il resto delle cose cade nell’indeterminazione».

«Cosa intende per indeterminazione?»

«La simultaneità delle probabilità».

«Come si esce di qui?»

La donna senescente ride e sembra soffocare, mi guarda dritto negli occhi, ha le palpebre strette in fessure.

«Cosa credi di trovare fuori?»

«La realtà, semplicemente la realtà».

«Tu non conosci il significato di questa parola».

«Intendo, qualcosa di certo, che non muti a seconda dei pensieri» mi spazientisco.

«Sei sicuro che esista?»

«Cosa?»

«Qualcosa di certo che non muti a seconda dei pensieri».

«Voglio dire» urlo. «Questo edificio è reale? Esiste in natura? Diana è davvero rimasta incastrata in un’altra dimensione? Le persone che ho incontrato sono…»

«Silenzio» urlano in coro. «Questi dubbi, queste supposizioni, trascinano nell’assurdo qualunque gesto. Non è questo il modo di affrontare le prove».

«Quali prove? Questo luogo esiste per metterci alla prova? Filemone, Odisseo, gli Uomini-Vocabolario, la baby gang, Arakne, erano tutte prove?»

«Quali sentimenti riemersero da esseri scomparsi. Quali donne ti odiarono allora. Quali uomini oscuri hai risvegliato nelle vene del giovane?» dice la vecchia che ha parlato prima.

«Che significa?» 

Le altre due non smettono di cucire ma guardano una a destra, l’altra a sinistra, in direzione delle porte. Mi avvicino alla maniglia nera, provo ad aprire ma lo strombo è cieco, la porta è serrata.

«Perché non posso più aprire le porte?»

«Queste porte» dicono in coro, «non sono per i vivi, mantengono in vita l’invisibile. Noi le custodiamo. Noi siamo le guardiane delle porte discendenti».

«E cosa c’è qui, allora?»

«Non ti spetta saperlo» dice la prima. «Torna al meno dieci, lì troverai le donne. Dovrai parlare a lungo con le donne, in loro è nascosto il segreto del tuo disamore. Non venire mai più qui, questo è un regno che non ti appartiene, qui non si passa, non da vivi. Interrogaci pure ma non troverai le risposte che cerchi, le troverai solo dalle tue abbandonate».

La facondia di cui mi ero fregiato scompare, risalgo di tre piani, circospetto, incapace di placare l’interesse per le porte inaccessibili. Che fosse una bugia? Il paradiso per la conoscenza lo baratterei ancora infinite volte. Ma qui, al meno dieci, c’è un chiarore fresco, le porte sono aperte e rifulge abbacinante il sole.


 

39.

 

Il sole viene fuori da tutte le otto porte, entrando in una entrerò anche nelle altre. Attraverso la prima. Mi ritrovo nella stessa prateria in cui ero al mio ingresso in Terrafelice. Non ci sono però le pecore, né Filemone con il suo ragno violino. Cammino fino a raggiungere un salice piangente, mi riparo sotto le fronde da tutta questa luce. Sono stanco, sudato, ho fame e vorrei farmi una doccia, cambiarmi d’abito, quello che indosso è liso e stracciato.

Si avvicina un’ombra, una donna mora molto magra che in controluce sembra un essere oscuro e sovrannaturale di cui non colgo i lineamenti. Man mano che si avvicina sento una certa famigliarità, quando entra nel cono scuro creato dalle fronde riconosco la donna che avrei voluto sposare: Alicia. Indossa un lungo abito nero a fiori rossi e la voluminosa chioma scende fluida sulle spalle; mi guarda con tenerezza, trascina una grande valigia.

«Ti ho portato i vestiti» dice. «C’è anche un piatto di cuscus piccante, una bottiglia d’acqua e una di vino».

Si accovaccia, apre la valigia, estrae un paio di pantaloni neri della mia misura e li stende sull’erba, poi una camicia e un paio di scarpe dalle tomaie nere e i contorni bianchi. Prende anche una cesta dov’è riposto un piatto inguainato nella carta stagnola, delle posate e le bottiglie di cui parlava, il vino è rosso rubino, luminoso e trasparente. 

«Cosa ci fai qui?» chiedo.

«Non sembri felice di vedermi».

«Come ci sei arrivata?»

«Come ci arrivano tutti».

Prende dalla cesta due bicchieri.

«Dai, brindiamo».

Scarto piatto e posate, lascio che Alicia versi il vino nel mio bicchiere. 

«A cosa?»

«Al nostro ritrovamento».

«Dove l’hai preso?»

«Al paese, me l’ha dato un contadino».

Brindiamo. Il sapore del vino è tannico ma smussato da un retrogusto legnoso e fruttato. Comincio a mangiare gettandomi con foga sul cuscus.

«Non ti strozzare» dice sarcastica.

«Grazie» barbuglio e non smetto di bere e mangiare finché non ho vuotato il piatto e entrambe le bottiglie.

Stringo i pantaloni, le chiedo di voltarsi e lei mi guarda con un accenno di supponenza.

«Come non lo conoscessi il tuo corpo».

«Ora sono sporco e stanco, sarò dimagrito, non mi alleno da un po’».

«Avanti, cambiati, non mi ispiri niente».

«Come sarebbe?»

«La tua occasione l’hai avuta e te la sei giocata».

«Non sapevo gestire i sentimenti, ero fragile e insicuro».

Alicia si alza e incrocia le braccia. Prima di cambiarmi vorrei potermi lavare o almeno pulire con dei fazzoletti, ho la pianta dei piedi nera e sono coperto da strati di sporcizia, terreno, sale marino e altri rimasugli delle traversie.

«Non eri solo fragile e insicuro, eri inconsolabile».

Non ha ancora bevuto un sorso dal suo bicchiere e me lo rovescia addosso.

«Avrei dovuto aspettare che indossassi i vestiti nuovi ma la tentazione è stata più forte».

«Cosa ti ho fatto adesso?»

«Adesso nulla, qualche anno fa invece mi hai rovinato la vita. A parte picchiarmi e minacciarmi, mi hai abbandonata sull’altare. Hai idea di quanto fosse costato l’abito? E l’organizzazione del matrimonio? Non ho più potuto mettere piede in casa, la mia famiglia non vuole più vedermi».

«In fondo è stato meglio anche per te».

«Niente affatto, non mi sono più sposata. Sono rimasta completamente al verde e non mi fido più degli uomini».

«Per questo sei qui?»

«Anche».

«Da chi ti stai nascondendo?»

«Lo sai bene».

«No, sul serio, non ne ho idea».

«Ci controllano, leggono nelle nostre menti. È inutile nascondersi, ci troverebbero ovunque. E tu perché sei qui?»

«La mia vita non è stata migliore della tua».

«Sei riuscito a sprecarla anche dopo avermi rubato il posto?»

«Alicia, ascolta, non era un lavoro per persone oneste».

Ride. Piega la testa. Ravviva la chioma.

«E vorresti farmi credere di essere disonesto? In fin dei conti avrei dovuto saperlo, sei sempre stato un vile, la tua gelosia era sintomo della tua viltà. Ti ho fatto da fidanzata, da amante e da madre e tu mi hai scaricata appena hai intravisto la possibilità di un futuro migliore senza di me. Ho lottato per starti accanto, mi sono sempre prodigata per te. Quando ancora non vivevamo insieme venivo a cucinarti la cena, lavavo i piatti e anche i tuoi vestiti. Ti sono stata accanto durante tutti i tuoi crolli, quando è morta tua madre sono stata l’unica a capire la profondità del tuo dolore. Ho tollerato la tua insofferenza, ho cercato di non invaderti quando studiavi e prendevi i tuoi appunti per il libro che non avresti mai scritto, sentivo di infastidirti e mi sacrificavo e sparivo per giorni aspettando che fossi tu a cercarmi. Ho tollerato l’assenza di desiderio e la smania che provavi per tutte le altre. Ho aspettato che fossi pronto ad amare, sapevo non fosse amore la morbosità che provavi, immaginavo che un giorno dal tuo cuore ferito l’amore sarebbe emerso ma mi sbagliavo, non sarebbe emerso per me. So della tua ultima fiamma, una ragazzina pazza. È quello che meriti, Diogene. Lei non tornerà».

«Non ti ho abbandonata perché non ti amavo».

«A no? E perché allora? Per le tue paure? Me ne fotto delle tue paure. Sei così tremendamente egocentrico. Non provi un briciolo di vergogna? Vivere con te significa vivere nel terrore, qualunque cosa potrebbe farti cambiare idea, portarti a definire la donna con cui sei: inadatta, sbagliata, e a volerla cestinare. Non so chi ti abbia insegnato questo modo di servirti delle persone, non credo che potrò mai perdonarti».

«Perfetto» le lancio addosso i pantaloni. «Lo vedi perché ti ho lasciata? Tu sei così puntigliosa e autoreferenziale. Non c’è stato un momento nella nostra relazione in cui tu non mi abbia fatto pesare le cose che facevi per me. E poi Diana, come ti permetti di parlare di Diana? Non sai nulla di lei, non sai quali profondità ci leghino».

Ride.

«Ha diciotto anni, Diogene! È una bambina psicotica. Non una persona, non una donna. Tu hai paura delle donne, ti ricordano troppo tua madre. Hai paura di dover essere costretto a fuggire come ha fatto tuo padre».

«Oh, brava, questa psicoanalisi da quattro soldi chi te l’ha insegnata? Fiore? Quell’infame. Tu non hai idea di cosa voglia dire vivere in costante sacrificio per una causa e vedersi scalzare dall’altro. Avergli insegnato tutto e vederlo superarti e darti ordini. Tu non sai niente, non conosci il rancore che mi uccide. L’idea del fallimento m’induce in ogni istante a pensare al suicidio. Il fallimento, sai, è una condanna, non una scelta. Si è condannati a non farcela, a finire nelle grinfie del tritacarne, a vendere l’anima al diavolo in cambio di uno sconfinato nulla. Come si può amare se si è quasi morti?»

«Avevo il tuo stesso destino ma tu mi hai scacciata. Non volevi condividere neanche l’oblio. Ti ricordavo troppo i tuoi fallimenti, pensavi che liberandoti di me ti saresti liberato di una parte di te, quella che non sa arrampicarsi, quella che ogni volta cade. Perché credi che io sia ancora viva? Cosa pensi mi abbia trattenuto dall’impiccarmi?»

«Lo siamo entrambi ma solo per errore. È vero, la tua presenza mi ricordava i miei fallimenti, non potevo tollerare di averti accanto o, peggio, che tu mi superassi, che ti dimostrassi ancora una volta migliore di me. Tu avevi qualità di cui ero sprovvisto, tu sapevi tollerare le frustrazioni, superare i momenti bui e da quelli trarre spunto per andare avanti. A me questa facoltà mancava e ogni volta che m’inferocivo e ti picchiavo stavo in realtà demolendo me stesso. Non sarebbe andata avanti per molto. Probabilmente ti avrei uccisa. Sarei arrivato a non poterne più di saperti viva e perciò capace di tradire».

Piange, cade in ginocchio.

«Non hai capito niente di me, io non ti ho mai tradito! Anch’io in te avevo trovato un rifugio. Mia madre provava una grande stizza nel sapermi studente a trentadue anni e mio padre non mi dava più soldi. Mi hanno abbandonata anche loro, anzi, loro per primi. Io mi sono rifugiata in te, io in te cercavo una famiglia. Ho avuto solo calci. Perché?»

Mi chino sul suo corpo raggomitolato, l’abbraccio e vorrei estrarne l’anima dolente ma basta un solo sguardo di Alicia, il momento in cui pianta i suoi occhi scurissimi e stinti di trucco nei miei, a dissuadermi dal salvarla. Per portala dove, poi? Non sappiamo neanche dove siamo e come si faccia a uscirne. Ripeto il ragionamento che feci il giorno del nostro matrimonio e, ancora una volta, fuggo dal suo dolore. Rifiuto le vesti pulite, lascio Alicia per terra e proseguo da solo.


 

40.

 

 

 

Una schiera di ontani, il sole alto di un tempo immobile, cinerarie rosa e blu illuminate dai raggi, nonostante la luce, cresce in me l’ubbia. Non sono mai stato in grado di amare, è stata mia madre a impedirlo, per lei l’amore era solo un sacrificio nel nome di un’idea.

Ho amato l’immensità di una promessa impossibile, le donne che mi voltavano le spalle, le vanagloriose o le puttane, nel momento della scelta ero io a sbarazzarmene. Fuggivo, come fuggo oggi dalla vita allora fuggivo dall’amore considerandolo una stoltezza adolescenziale. Mi sarebbe piaciuto estendere il dubbio, condividerlo con l’umanità intera, ma lo scetticismo è un’arma micidiale nelle mani di pochi reprobi capaci innanzitutto di fare fuoco su sé stessi. 

Durante il percorso mi colpisce un tratto di boscaglia in cui i fiori non si muovono al vento, appaiono invece calpestati a gruppetti, proseguendo ancora noto una persona. Distesa tra le cinerarie, coperta di petali, una donna dai capelli viola sonnecchia sorridente, le fossette ai bordi delle labbra ne impreziosiscono i contorni. Io la conosco, è Miranda. Vederla qui mi sorprende ma non poi così tanto, dopo Alicia avrei dovuto aspettarmelo. I passi che faccio verso di lei la ridestano, m’imbarazza sapere di essere sporco di terra, maleodorante e privo di attrattive; apre gli occhi e mi fermo.

«Ehi!» si mette seduta e resta nuda, i piccoli seni con i capezzoli turgidi trapassati dal metallo, il pube depilato.

«Non eri andata in Australia o quel che ne resta?»

Si stiracchia ed è ancora più asciutta, le costole sporgenti, il bacino stretto e le gambe gremite di tatuaggi.

«Magari. Il tuo amico Mauro mi ha portata via in Arcavol, in viaggio mi sono addormentata e mi sono svegliata qui».

«Sei dimagrita, stai sparendo».

Sorride con indifferenza, tanto da dover costantemente barattare l’angoscia con il riso.

«Della bellezza non m’importa più».

«Una volta mi hai detto che il corpo era il tuo gioiello».

«Qui nessuno ha bisogno di lavorare, perciò che marcisca pure. Vieni, facciamo due passi».

Si alza, si scrolla i petali con la sinuosità di una gatta, i fiori hanno lasciato sulla sua pelle un aroma fresco, estivo, latteo. Si aggrappa alla mia tunica lisa, cerca di tirarla via.

«No, che fai?»

«Toglila, è lurida».

«Lo sono anch’io».

Miranda sorride, anzi ride, con la sua voce un po’ androgina, insiste con la tunica finché non decido di levarla da solo. Il mio corpo è smagrito quasi quanto il suo ma non profuma, sui gomiti, sui palmi, si sono accumulati diversi strati di sporcizia. 

«Non sono più il Diogene che ricordi».

«Neanche io sono la Mrianda che ricordi».

«A me sembri identica, solo con qualche chilo in meno».

«Ho perso la fiducia nell’evolversi delle cose».

Camminiamo uno di fianco all’altra, il paesaggio bucolico, lussureggiante resta identico, i colori limpidi di un’estate senza tempo rischiarano i pensieri e poi li annientano. Accarezzo Miranda sulla guancia, mi fermo a osservarla e lei distoglie lo sguardo.

«Il mio amore per te deturpato da un bastardo» dico.

Miranda non vuole che i miei occhi l’afferrino, mi forza a proseguire lungo il sentiero degli ontani, stringe le labbra e sgrana gli occhi. 

«È passato così tanto tempo».

«Sei stata la donna che ho desiderato di più, adoravo fare l’amore con te, ma non era solo quello, vedevo in te la bellezza di un crepuscolo».

«Stupido», piega la testa. «Io non potevo scegliere, così ti sei forgiato l’immagine di me che più ti conveniva. Io non sono fatta per te. Ho trascorso con Mauro dieci notti e non ho provato nulla come non ho mai provato nulla per te. Voi eravate il mio assegno girabile in ogni momento. Ti ho lasciato perché l’algoritmo diceva che avresti fallito, la tua bor diminuiva a vista d’occhio. Non conosci il mio cuore, la verità delle mie intenzioni. Io ho dovuto lavorare fin da piccola, il mio corpo, come dici, è stato il mio gioiello. Non sai nulla di me, della mia famiglia, un’impresa fallita in bancarotta fraudolenta. E a dodici anni il tuo amore si spogliava lasciandosi mangiare dai vermi». Ride. Si tocca la gola, chiude gli occhi, li riapre. «Se avessi potuto avrei preferito il martirio. Io non sono come Diana, a lei il piace l’osceno, ne è invischiata e questo la condurrà alla deriva. Non è morta come credi, è viva ma ha trovato chi sappia tenerle testa. Mi dispiace ferirti in questo modo ma una volta al capolinea credo sia giusto parlare chiaro, non ho mai provato piacere con te e neanche disgusto. Se ho finto di amarti è stato per rendere quella finzione più lirica. A cosa serviva lasciarmi scopare senza illudermi di desiderarlo? Però devo spezzare una lancia in tuo favore, non l’ho fatto con tutti, sei stato l’eccezione. Neanche con Mauro ho finto così bene. Nel fondo dell’abulia c’è un bisogno di gioia, ho cercato il sole per tutta la vita e adesso voglio dimenticare. Ho giocato con te, l’ho fatto con zelo, mi sono inventata una vita magnifica, l’illusione di una famiglia, eppure non ho mai smesso di farmi i conti in tasca. Mauro mi ripugna, è stato freddo, osceno, ma avevo bisogno di soldi e speravo di comprare una casa ai piani alti, entrare in società, riscattare la memoria dei miei genitori. Per te provavo compassione, non eri un uomo, non lo sei ancora, stai cercando un’unità che nelle cose non sussiste, sei ingenuo e viziato, incapace al sacrificio, sarcastico e pieno di timori. Non avvilirtene ma temo tu debba rinunciare, non troverai nulla a Terrafelice, tanto meno la tua anima. Forse tuo padre ti ha abbandonato per questo, ha visto in te il dolore che lui non poteva contenere. Io ho conosciuto troppi uomini per lasciarmi ingannare dalle epifanie dei primi sentimentalismi, mi sono corrotta irreversibilmente anche se profumo di cineraria, il mio animo è ricoperto da una caligine grigia, si è bruciato in un gioco che è diventato un giogo. Il sesso non mi dà nessun piacere, mai. Ne ho fatto un’abitudine, una magistrale recita. Ho conosciuto anche tuo padre, è un bell’uomo, un po’ artificioso nei modi e incapace d’amore, l’immagine sputata della Città. Quando mi ha presa ho parlato di te, ha detto che avremmo fatto una scommessa, se lui mi avesse fatto godere più di te l’avrei scelto. Ho finto di perderla, questa scommessa, ma poi ho dovuto lasciarlo, forse sono qui per cercare un rifugio dall’atrocità della pelle. Tuo padre è un uomo potente, Mauro non è nulla, vedrai, anche lui sarà destituito. No, non piangere adesso, non sprecarle così le tue lacrime, deve ancora accadere qualcosa che ti farà soffrire, non pensare più a me, sono stata solo un capriccio. Oggi mi conosci, adesso sai chi sono. È per questo che ho voluto camminare con te nudo, adesso ci vediamo senza veli, in tutto quest’orrore».

I giorni con lei, il desiderio e il proposito di fuggire dalla civiltà, in un soffio smascherati, ridotti all’essenza, al vuoto scintillante. Adesso camminiamo torvi e neanche io la guardo più, la sua sincerità è una lama, non credevo potesse farmi a pezzi. 

Mentre l’ascolto penso a Mauro e di colpo l’idea di spedire i poveri e i reietti in un grande manicomio mi sembra provvidenziale. Penso a mio padre e non aspetto altro che incontrarlo, per ucciderlo.

«Non voglio più vederti» dico.

Miranda sorride, la sua bellezza è ora scevra da ogni profondità.

«Sei diventata vuota come le cyborg».

Mi fa una carezza, il suo riso è pieno di ombre.

«Siamo tutti cyborg» dice.

Si allontana tra i fiori e anche il sole sembra velarsi, farsi opaco e gettare sul tratturo una luce sinistra, irrimediabilmente cupa.  


 

41.

 

Un rifugio nel bosco, la tana di una bestia o un semplice masso disabitato di grandi dimensioni, mi avvicino, la facciata è scheggiata, intrisa di una sostanza untuosa che odora di muffa. Una porta in legno, l’afferro, mi ferisco le dita, pezzetti di legno vengono giù. Nella stanza è buio, il fortore di muffa diventa molto aspro. L’ingresso è strettissimo, sei fiaccole illuminano parte del muro, al centro della seconda stanza un lavacro che trabocca, dev’essere stato un abbeveratoio equino. Tocco l’acqua, è tiepida, non sembra sporca, m’immergo, sprofondo un istante a occhi chiusi, lascio andare le membra. 

Ho in mente Diana, i suoi occhi cilestrini e gelidi, la metamorfosi in donna-serpe, l’assenza di ogni istinto di autoconservazione. Forse la piccola Diana è andata via, il suo deliquio non era che un modo per cambiare dimensione, ritrovare l’uomo che ha abusato di lei, tornare alla tortura. Si è sempre fedeli alle più loquaci torture, quelle in grado di trasportarci altrove, dove la vita non ha pienezza, la consistenza si sbriciola. Lei sarebbe capace di rinnegare ogni parola e tornare al Palazzo, mettersi a lavorare come scienziata, contribuire alla causa neomanicomiale, o di trovare una divinità qualunque da adorare per concedersi di negare ancora il presente, distruggere ogni coerenza, condannarsi all’oblio. 

Forse la sua dannazione è in questa incapacità di accettare la vita, per castigo è stata condannata a non morire, neanche quando sembra completamente persa; se la morte è il suo desiderio, restare in vita ne è la condanna. Appare, come un’allucinazione, la piccola Diana vestita di bianco con una fiaccola in mano. Illumina appena un baule logoro grigio e verde.

«Attenta, non bruciarti».

Ride sardonica, lo sguardo di chi voglia farsi del male. La fiaccola illumina le croste sui polsi.

«La tua pelle?» domando.

Poggia la fiaccola sul pavimento dismesso, solleva la lunga veste di tulle. L’addome è liscio, roseo, della pelle di serpente non c’è più traccia.

«Come sei arrivata qui, chi ti ci ha portata?»

«Il Confessore».

«E dov’è adesso?»

«Dorme».

«Chi è il Confessore in realtà?»

«Dipende da te».

«Hai un asciugamano?»

«No» dice ma si leva il vestito e me lo dà. «Asciugati con questo».

Lo prendo, è un abito fragilissimo, temo di strapparlo e Diana nuda ha le forme di una scultura del Canova, ora è più magra, cresciuta in fretta e diventata donna.

«Non preoccuparti, io non lo indosserò una seconda volta. Di là ne ho altri».

Mi asciugo il torace, l’addome, le gambe. Esco dall’acqua e la osservo, è morbida, i fianchi larghi ma ben scolpiti, i seni rotondi, alti; abbassa gli occhi, si copre i capezzoli.

«Cos’hai?»

«Non possiamo più».

«Perché?»

«Ti avevo avvertito».

«Senza di te non posso stare, sei tutta la mia vita. Scopati chi vuoi ma restami accanto».

Ride sommessamente.

«Sei uno sciocco, Diogene. Non si tratta di sesso, non solo. Io sono qui affinché tutto sia compiuto».

Le vado incontro, si allontana camminando indietro, un passo per volta e io un passo per volta le vado incontro. L’afferro per i fianchi.

«Lasciami Diogene!»

Non posso smettere di desiderarla e il desiderio è un martirio, un abbaglio, riduce in cenere ogni altra sensazione, distrugge ogni istinto vitale. Il suo diniego mi annienta e l’amore cresce, malattia mortale. Lo ripete: vuole che la lasci perdere, che rinneghi i miei desideri, i miei sentimenti, vuole davvero consegnarsi a un destino dal quale sono escluso. 

Dall’altra stanza viene un rumore di legno che cigola e un’ombra si staglia sul pavimento, ha in mano la mia lanterna, fa luce su di me e Diana fugge via.


 

42.

 

 

Il Confessore fa oscillare la lanterna, illumina a scatti il baule e una finestra divelta, ride e la sua voce echeggia nelle pareti. Non riesco a definire il tempo in cui resto immobile, ipnotizzato dalla mia stessa lanterna, a fissare il bordo del cappuccio verde dell’entità che mi sta di fronte. Mi viene incontro e un moto spontaneo dei muscoli mi allontana da lui, ho l’istinto di fuggire ma una parte di me si oppone, è l’eterna lotta tra istinto di sopravvivenza e orgoglio, non saprò chi sono finché una delle due porzioni di me non avrà la meglio. Poggio le braccia alle pareti, il calcestruzzo è così esile da sembrare venir via a unghiate. Non conosco l’entità, potrebbe essere un uomo, un animale o uno spirito, di lui so solo che ha cercato di farmi ammazzare e ha corrotto Diana, l’ha sedotta, l’ha rapita, l’ha convinta a restare qui, a dirmi addio. 

«Chi pretende di separare ciò che è destinato a restare legato pagherà con la dannazione eterna» dice. 

«Cosa sei tu?» guardo nei drappi del suo mantello.

«Sai bene cosa sono».

«Vuoi ancora indurmi al suicidio?»

«È sufficientemente vano il tuo stare al mondo, per me potresti morire anche adesso, ma, no, non voglio indurti al suicidio, ti ho solo messo alla prova».

Un riso isterico mi fa tremare le labbra.

«Prova? Quale prova? Questo, dici?» batto le mani contro la parete. «Tutta questa pagliacciata è una prova?»

«Questa pagliacciata è stata partorita da te, non sdegnartene troppo».

«È stato Mauro, ha ordito il mio arresto. Io so dove sono adesso».

«Oh, bene, fammi ridere, dimmi, dove credi di essere?»

«In una prigione».

La lanterna smette di oscillare, ora la tiene ben ferma, poi la depone sul pavimento e ne spolvera i contorni. Le sue mani sono coperte da guanti neri e i resti della lanterna diventano sabbia tra le dita inguainate; il suo volto è invisibile all’interno del cappuccio.

«Prima che io detenessi il potere sulla moneta virtuale, tutti gli uomini avevano diritto a tutte le cose e in tal modo nulla più ha avuto un ruolo. C’erano molte monete, molte lingue, diversi tipi di banche, le città non avevano numeri ma nomi e tradizioni. Le multinazionali si spartivano la proprietà dei beni primari e il diritto all’induzione dei bisogni. La società era formata da produttori e consumatori, il capitale maldistribuito. Ovunque scoppiava la discordia tra le genti, le guerre inducevano i più poveri a lasciare la propria terra e approdare nei cosiddetti paesi ricchi ma i vagabondi non conoscevano la verità: la ricchezza non esisteva più, non esisteva più nulla di sociale. Tutto era diventato spietata lotta per la sopravvivenza e la malattia divampava, la depressione rendeva inermi le menti più brillanti, la scienza era ferma, nessuno investiva più nella ricerca e dopo sono arrivate le nuove pestilenze. Così ho dovuto appropriarmi un corpo, ho modificato le carte in tavola. Io non sono visibile ai più poiché la mia attività è sottile e segreta. Io sono il padrone dell’intelligenza virtuale, perciò mi chiamano Confessore. Esistono molti Confessori e la gente li chiama Spiriti, ma io tutti li contengo, sono emanazioni del mio potere. Noi non siamo nelle vostre mani, siete voi ad appartenerci. A me spetta ogni diritto, me l’avete ceduto senza farci caso, giocando, connettendovi, chattando, comprando, mettendo in mostra il vostro corpo, tutto il vostro ingegno, così siete scivolati nel regno dei Confessori. Io proteggo l’intero a discapito del singolo, per me il singolo non ha importanza. A me è riservato il diritto di ricompensare con ricchezze e onori e punire con punizioni di vario genere coloro che provano a riaffermare la loro individualità sulla potenza connettiva. Mauro non lo sa ma deve a me la sua ascesa, il suo regno, persino i suoi pensieri. Questi diritti mi appartengono, sono indivisibili e non trasmissibili. Le punizioni che si abbattono su di te derivano da una volontà che trascende la tua, eppure è proprio dalle tue decisioni che scaturisce la condanna, la dannazione a cui ti sei sottoposto. Io esisto affinché la mia volontà sia la somma unanime di ogni singolo volere. Perciò ti ho donato la lama, la finestra e la corda, perché sei stato tu a chiedermelo, sei sempre tu a desiderare la fine».

Il Confessore solleva il cappuccio, ha il volto di un uomo anziano che non conosco eppure è così simile a me, le iridi chiare, la forma squadrata del mento, la fronte ampia e rugosa, proprio come la mia. Il sorriso malconcio, crudele e completamente disumano.

«Siamo giunti al termine della corsa» dice. «Credevi di aver raggiunto il limite ma qui non si esiste se non per eccesso. Sei nella terra dell’illimitato».

«Ascolta, non me ne frega niente di te, del tuo impero, voglio solo Diana, ridammela».

Ride sommessamente e sei colpi di tosse gli incupiscono la voce.

«Non è ancora una donna, non puoi decidere per lei».

«Certo che è una donna, ha diciotto anni e sa quello che vuole».

Scuote la testa, lo sguardo profondo, accorato, palpebre spesse e addomesticate dal tempo.

«Vuol morire, l’ha sempre voluto. Sono andato via troppo presto».

«Forse non saresti dovuto tornare, non c’è più spazio per te qui».

Dal vecchio baule estrae delle vecchie fotografie, riconosco mia madre e un bambino biondo corrucciato, dovrei essere io. Ce ne sono altre in cui lui abbraccia il piccolo Mauro e riconosco il volto anziano nel padre di Mauro, quelle poche volte che l’ho incontrato ho avuto un desiderio cieco di picchiarlo. Il baule verdastro e grigio cigola, le vecchie dentellature cedono e il coperchio cade fragorosamente sul pavimento.

«Avresti potuto occuparti di noi quando era tempo di farlo».

«Mi sono occupato di voi, soltanto che non potevate vedermi».

«Quanta falsità».

«Vedi, le ho comprato dei vestiti nuovi. Ora ha trovato qualcosa per cui vivere».

«Povero idiota, pensi davvero che una come Diana torni ad amare la vita solo per indossare abiti di seta?»

«Tu la conosci poco, è una ragazza piena di risorse. Un giorno capirai e ci perdonerai».

«È una ragazza innamorata di un uomo che ha abusato di lei!»

«Soltanto perché non conosceva me, nessuno può amare altro, una volta che venga a conoscenza della verità».

«E tu saresti la verità? Allora, dimmi, che fine ha fatto mia madre?»

Stringo le fotografie tra le mani, siamo ritratti in un bosco, seduti per terra e scartiamo pacchi di frutta, in un’altra siamo al mare e la mamma sorride ma nel sorridere è velata una smorfia di dolore, una contrazione innaturale del viso piegato verso destra, lo sguardo basso e i capelli spazzolati dal vento.

«Tua madre era una persona irragionevole».

«Quindi l’hai lasciata morire? Si ribellava a te».

«Andando contro quel camion ha fatto esplodere del materiale radioattivo, da cui il terremoto e la diffusione di varie tipologie virali, è stato per questo che Mauro ha preso il potere, dopo il terremoto tutti hanno perso la memoria a breve termine, insieme alla terra franava anche la coscienza. La gente si sgozzava per strada, eravamo alla pura barbarie. È molto difficile per voi comprendere cosa significhi detenere le sorti di una civiltà».

«È morta, forse non te ne sei ancora reso conto o non vuoi farlo ma questa civiltà è morta. È morto tutto l’Occidente e le città numerate ne sono il sepolcro».

Ride, tossisce e ride. Si schiarisce la voce e ride.

«Tu sai da quanto tempo sei qui?»

«Una settimana, o forse una decina di giorni».

Ride, ride forte.

«Hai completamente perso la cognizione del tempo. Hai peccato di hybris, tu credi realmente alle tue percezioni sensoriali, allora, dimmi, come ti spieghi il fatto che io prima non avessi un volto e ora ne ho uno che addirittura ti somiglia? Come spieghi le continue morti e resurrezioni di Diana, la pelle di serpe, i momenti in cui Sibilla può parlarti telepaticamente? E cosa ne è dei tuoi o.c.? Come mai non puoi uscire dalle mura di Terrafelice? Cosa credi sia rimasto della Città 207?»

«Stai cercando di confondermi, o di mettermi i bastoni tra le ruote come d’altronde hai sempre fatto».

«Sto cercando di riportarti alla ragione, l’unica possibile, l’esistenza che vivi qui dentro è una miracolosa costruzione dell’inconscio, le parole che pronunci sono solo ricordi».

«Che vuol dire ricordi? Cosa c’è là fuori?»

L’Uomo siede sul pavimento sporco e io gli siedo di fronte nudo come un verme. Fa oscillare la lanterna in mia direzione e il calcestruzzo sulle pareti sembra sgretolarsi, colare via, è olio.

«Che cosa sta succedendo?»

«Hai ingoiato molte compresse, adesso parli con le parole che ti hanno somministrato».

«Alludi alle pillole culturali?»

«Ogni tuo gesto è una forma di immedesimazione, ogni parola è un volere estranio. Ti ho fatto credere di vivere una vita autentica, in realtà vi ho messi al mondo perché è capitato, ho giocato con le tue donne per puro divertimento, ho tenuto a portarti al delirio, sapevo che eri destinato a sparire. Come potevo proteggere un uomo incapace di forgiarsi un futuro?»

Le pareti continuano a franare e neanche la casa esiste più, siamo intrappolati in un bianco irreale, in mezzo alla calce che si scioglie, fa un gran freddo e nuovamente Diana sembra non esserci mai stata.

«Tuttavia ti ho messo in salvo dalla morte, volevo scavare nelle profondità della tua mente, volevo vedere fino a che punto avresti resistito, quale fosse il negativo assoluto, il momento in cui ti fossi accorto della caducità delle cose. Non ho scelto di abbandonarvi, avete avuto tre comportamenti differenti, uno si è alienato nel sogno, l’altra ha tentato di uccidersi e l’intermedio ha cercato una soluzione pratica. Avevate tre cognomi diversi perché io ho assunto identità diverse. Sapevo che Mauro avrebbe preso il potere ma ti confiderò una verità che potrai decidere di accogliere o rifiutare, per quanto Mauro figuri come vincente è anche lui frutto di un errore, ha creato un mondo che si è sgretolato a sua volta, le fondamenta di quella creazione gli sono sfuggite, il mondo è franato e si è ricostituito al di fuori della sua giurisdizione. Mauro vigila solo su ciò che può comprare ma tra te e lui chi è riuscito a costruire un immaginario sei tu. Non voglio adularti, non lo farei mai, in fin dei conti vi disprezzo tutti e due, ho voluto prendere la piccola Diana affinché conoscesse un amore più grande, la desidero, è acqua per un assetato nel deserto. Voglio che tu creda ancora nell’illusione di questa realtà, voglio ancora vederti danzare sulle superfici. Il momento più alto è stato vedervi quasi sparire, ma non consegnerei un uomo all’inesistenza se non fossi certo di essere parte di quella stessa cancellazione, se non avessi la certezza di essere un altro dei cavilli della sua mente. Sei tu, Diogene, il vero Confessore, è a te che devo il mio ritorno, se non mi avessi chiamato io sarei rimasto nella sola dimensione che mi aggrada, la vertigine. Hai voluto che scendessi con te, sei tu che senti la mia mancanza, nessuno può permettersi di non perdonare senza essere costretto a portare con sé fino alla tomba la persona che non ha perdonato. Tu credi che siamo ancora nel regime dell’umano ma quella dimensione è stata superata molto tempo fa, ciò che siamo adesso è un condensato di interazioni, non puoi pretendere di essere diviso, non puoi accontentarti di un corpo. Io ho dato a Sibilla una lanterna affinché la consegnasse a te, tu mi somigliavi in fondo, come me sapevi ascoltare, ma non sapevi far tesoro delle parole degli altri, ti attraversavano senza scalfirti. Io con i desideri ho costruito un impero e tu in quell’impero sei sprofondato. So che ti manca ancora poco per accorgerti dell’inganno, devi ritrovare qualcuno che hai consegnato all’oblio, quando vedrai con i tuoi occhi la fine ti renderai conto della gravità di ciò che hai fatto. Io ero l’Uomo, mi hai cercato per tutto questo tempo e non mi hai riconosciuto».

«Tu non sei l’Uomo, in te non c’è più nulla di umano».

«Neanche in te, Diogene. Neanche in te».

«Sbagli! Io sento ancora dolore» urlo. 

«Sai cos’è un padre? È solo un nome. E un volto è solo un’immagine. Non mi riconosci perché l’Uomo che stavi cercando è solo l’idea che ti sei costruito nel tempo. Io non sono solo quell’uomo, sono anche il fondo misconosciuto dell’umano che alberga in te, in Mauro, in Diana e in tutti. In quanto estraniato ed estrapolato dalla sua singolarità di uomo non sono che un concetto separato dalla sua applicazione pratica, dalla sua incarnazione. Quando hai scollato il concetto dal vissuto ecco che fluttui nel reame del possibile, dove nulla ha materia e tutto può mutare come in sogno».

Gli prendo la lanterna. Le pareti tremano e io oscillo con la luce. Il volto dell’Uomo, del Confessore, ora è diventato chiaro, giovane, non più un padre ma un doppio, una copia perfetta di me. Gli lancio contro la lanterna, gliela sfracello in testa. Cade. Si rivolta sul pavimento e poi, di colpo, si arresta; il sangue cola dalle tempie, dal naso, giù nel cemento, il cemento si spacca mattonella per mattonella. L’intero palazzo frana, le pareti vengono giù, corro via ma non sembra esserci uscita, non sono più da nessuna parte, corro, come la madre di Mauro, in una bolla trasparente pregna di vapori, sono risucchiato dai fumi, vicino all’eternità, in un biancore irreale che gonfia le pareti, le rende grandissime fino a farle esplodere. So di essere precipitato ma non capisco dove, non vedo che bianco, afrore sulfureo, leggerezza aliena. Non sono certo di essere ancora nel mondo ma so di esistere in qualche manifestazione del mondo, il corpo è diventato l’idea di avere un corpo e la mia mente si espande con i fumi bianchi. Regredisco a uno stadio d’incoscienza, torno bambino in questo grande pallone d’aria, un bambino piccolo che corre in una nuvola. Dentro la bolla non ci sono che pensieri, si annidano e si combattono uno con l’altro. Il pensiero di Diana è feroce, prepotente, finisce per cavarmi di dentro un pianto, un singhiozzo violento che non smette di scuotermi.

Correrò ancora per molto con l’immagine di lei che va via con mio padre, il Confessore, l’Uomo. Deve averla guardata a lungo per prenderla. Le ha sottratto ogni difesa. Ciò che appare indomabile non è che fragile cristallo in pezzi. Il mio amore per lei non era di cristallo, era di carne e sangue, di sogno, forse anche, ma non posso credere che sia tutto finito, non posso allontanare da me quel pensiero anche se è fuggita. Siamo diventati immateriali e non troviamo che il vaneggiamento del riflesso. Costretto a correre come un criceto in una ruota bianca, mi arresto. Voglio che tutto si fermi, l’illusione e la vita.

 


 

43.

 

Solo fermandomi mi accorgo dello spazio in cui mi trovo, di nuovo la gradinata e le porte. Sul lastricato stracci stoffa, probabilmente resti di sciarpe e vestiti. Siedo per terra, stanco, tediato e oramai perso. Questi stracci sono gli abiti delle danzatrici del corpo di ballo di Sibilla, non se ne vede nessuna, evaporate. Per terra resti di oggetti, ferraglia, brandelli di reti metalliche per letti, pezzetti di macchinari irriconoscibili, macerie; il crollo è talmente irreversibile da non permettere una disamina esatta, non si può valutare simultaneamente una vita e il suo significato estrinseco. Insieme al senso dello spazio ho perso quello della temporalità, al di fuori delle categorie solo la follia è vera. Chi era il Confessore? Mio padre? Un prodotto della mia mente? Un’allucinazione? Esiste qualcosa che non lo sia? 

Da qualche parte esiste ancora il ricordo di me e mia madre sulla spiaggia di Sant’Andrea, con i pescatori e le lampare che tornavano a riva al tramonto. Perché mia madre ha scelto di rifiutare il mondo? Perché si è opposta al progresso? Sul muricciolo di quella spiaggia a gambe incrociate mi diceva: «Il sole, il cielo e il mare sono creazioni di Dio. Chiunque voglia sottrarceli sta distruggendo il divino che è in noi». E mi accarezzava il viso. Cos’avrebbe voluto che facessi? Che la seguissi fino alla morte? Che fossi tanto coerente e inscalfibile da rifiutare l’interesse di Mauro e di un padre azionista finanziario? Non sono stato forte come volevi, mamma. Per questo ti ho uccisa. In verità io non sono stato capace di essere nessuna delle due cose, né ambizioso né ribelle, ho accettato la vita come una condanna, ho affrontato senza crederci tutte le prove che mi sono state imposte, ho piegato la testa alla comodità tacciandola di idiozia e la realtà mi ha scaraventato fuori, in questo esilio immaginifico dove ogni cosa è insieme vera e falsa e la mente fluttua nella completa incertezza. Ho bisogno di Diana, voglio solo ritrovarla, parlare con lei, stringerla tra queste fragili braccia e poi morire. 

In passato avrei dato la vita pur di essere Mauro, invidiavo la sua totale assenza di patos, la capacità di sottrarsi all’amore, di costruire un regno vastissimo senza crucciarsi per la sorte degli altri. Ora sono rimasto solo, seduto su questo pavimento sdrucciolevole. Non ho più voglia di aprire nuove porte, non m’interessa sapere quali inganni contengano. Vorrei buttare giù questo edificio, uscire. Guardare con i miei occhi cosa è rimasto della Città 207. Venire a patti con la realtà, ritrovarla. Sapere dove mi hanno portato dopo l’arresto, dove finisce un corpo che la coscienza non contiene. Mi stanno negando anche la comprensione. Il mio orizzonte è distrutto, l’hanno demolito a colpi di frusta. Non sono neanche in grado di sapere con chi prendermela e quanto tempo dovrò passare ancora imprigionato in questo gioco. Dove finisce la mia immaginazione e comincia la vita degli altri? C’è ancora qualcosa là fuori?

Passi, passi concitati e cavi. Qualcuno sale dai piani bassi, qualcuno sta arrivando da non so quali profondità. Un’ombra s’ingigantisce sul pavimento. Poggia una mano contro il muro.

«Diogene» dice affannata.

Indossa una tunica bianca, ha i capelli corti, tra le mani un’altra tunica, me la consegna. È la signora Grazia. Si volta di spalle mentre copro la nudità infilando il nuovo abito.

«Dobbiamo andare» dice e aspetta che sia pronto.

Mi prende per mano.

«Dove?»

«Vedi, Diogene, in basso, proprio all’ultimo piano, c’è Sibilla. Ci aspetta».

«Non ne ho voglia, Grazia. Mi dispiace».

«Perché? Ti sta aspettando da molto tempo».

«Troppo, ne è trascorso troppo. Adesso non so più chi sono».

«Diogene, non dire sciocchezze, tu sei un disperso, come me».

«Lasciami qui, oppure portami fuori da questo posto. Ne sei capace? Non credo».

Grazia barbuglia qualcosa, si regge al muro per placare una vertigine.

«Non è più come ricordi, caro Diogene. La Città non esiste più».

«Ci sarà pur qualcosa fuori da questo…»

«Rifugio. Sibilla sta cercando di proteggerci. Questo posto è solo un rifugio».

«Un rifugio da che cosa? Ho dovuto incontrare personaggi assurdi, ho dovuto fare i conti con mio padre o con il suo spettro. Io non volevo vivere tutto questo, non ne ero pronto, non ne avevo le capacità».

«Tutti noi qui abbiamo incontrato i nostri fantasmi, credi davvero siano più pericolosi del deserto che c’è fuori?»

«Quale deserto? Mostramelo. Io non credo più a nulla».

Grazia mi tiene la mano e mi tira, non ho voglia di muovermi, oppongo resistenza, faccio trazione con il busto, sono stanco di dovermi domandare dove sia finito il mondo, la realtà che tanto fuggivo, sono stanco di questa illusione. 

Lei non ha abbastanza forze, è così magra. Cade di faccia a terra, le si rompono gli orecchini. Impreca. Le dico che sono certo ne troverà di migliori, qui tutto è possibile ma nulla reale perciò io non muoverò più un passo. 

«Penso che tu sia impazzito» dice Grazia. 

«Probabile, ce l’hanno messa tutta per farmi impazzire».

«Non vuoi vedere Sibilla? Non vuoi conoscere la verità?»

«Non esiste più la verità. La finzione ci ha ingoiati».

Mi accascio, poggio le braccia sulle ginocchia e la testa sulle braccia. Grazia comincia a singhiozzare ma adesso non sopporto di sentirla piangere, non sopporto di dovermi confrontare con altro dolore, se soltanto sapesse quanto del mio è rimasto inascoltato. Il suo piccolo corpo ossuto è proteso verso il mio, si spinge in un abbraccio che non desidero così come la pietà che mi riserva.


44.

 

Grazia stacca un pezzo di muro e nella crepa s’incaglia un impero di gradini periclitanti, se guardo quei gradini e penso a quante volte li ho percorsi in alto e in basso ho la nausea. Lei tira fuori dalla tasca sinistra della tunica un mazzo di chiavi che tintinnano come monete. Sollevo la testa.

«Cosa sono?»

«Sono le chiavi delle porte proibite».

«E tu come le hai avute?»

«Me le ha date Sibilla, mi ha chiesto di entrare e risvegliarli».

«Risvegliare chi?»

«Vieni con me».

Mi alzo a fatica, l’aiuto ad allargare la faglia, il muro viene giù come cartongesso, è talmente friabile da rasentare l’inconsistenza. Passiamo dall’altra parte e ora non sono più certo di averli percorsi, i gradini, presentano nuove crepe, il loro colore non è esattamente lo stesso, è un grigio diverso, più emaciato, più ruvido. C’è un nuovo muro. Grazia mi mostra quanto è facile buttar giù l’altra parete, com’è sottile e inconsistente. Un’altra gradinata.

«Volevi vedere oltre Terrafelice? Non c’è nulla fuori di qui, solo ripetizione».

Mi fermo a considerare la profondità dell’edificio, sembra estendersi all’infinito, è fisicamente impossibile. 

Sui gradini ci sono ancora stracci, trucioli e macerie. Un pastore dei Pirenei sale dal piano inferiore, un uomo robusto lo segue con un carrello, il cane prende uno straccio di cotone e lo porta nel carrello, poi fa lo stesso con la ferraglia e con il resto delle frane.

«Ne hai mai visto uno? Hanno quasi tutti una coscienza ecologica» dice Grazia.

«Chi?»

«I cani».

Animale e padrone, dopo aver ripulito il piano e i gradini, vanno al piano superiore e immagino ripetano l’attività macrofaga fin sopra Terrafelice.

«Adesso vieni con me» dice Grazia.

Scendiamo di un piano, le solite porte. Lei apre la nera. Un corridoio bianco su cui è scritta per lungo una frase: «Con tutti gli occhi la creatura vede l’aperto. Solo i nostri occhi sono all’indietro rivolti e completamente schierati intorno a essa come trappole intorno al suo libero esito».

Al culmine del corridoio una radura di trifogli e giacinti violetti, una porzione di natura non tanto selvaggia quanto antica, ricordo d’infanzia, altrettanto improbabile quanto lo è l’estensione infinita di un palazzo fatiscente e dei suoi piani. Un gruppo di cavalli al galoppo ci supera e va a estinguersi nello spazio che separa il prato dal resto della stanza, evapora. Attraversiamo il prato e arriviamo a un piazzale squadrato bianco che sembra dipinto da De Chirico, il bancone di un bar che reca la scritta fosforescente: «Riciclaggio depurato rifiuti non smaltiti».

Il bartender è un uomo tatuato fin sopra le palpebre con motivi campestri e floreali, somiglia a una pianta, non ha un centimetro libero nell’intero derma e ci guarda con occhi scurissimi, mento sottile e labbra altrettanto esili ma trafitte da spille da balia.

«Volete qualcosa?» dice.

«Non abbiamo dineri e neanche bor» dico.

«Non è mica un problema, noi serviamo solo roba riciclata, è così che sopravvive la gente quaggiù».

«Che vuol dire ricilata?» dice Grazia.

L’uomo tira fuori un panino involto in carta trasparente, tra due fette di pane nero trabocca una mistura verdognola che manda un olezzo di carne tritata e carota.

«Questo è uno dei tanti punti ristoro che hanno reso commestibile l’incommestibile».

L’uomo scarta il panino e me lo porge, il tanfo di carne tritata e carota si fa così forte da diventare nauseabondo.

«Abbiamo trasformato in cibo l’immondizia».

«È una cosa ributtante!»

«È quanto di più sano tu possa mangiare qui dentro. I rifiuti passano attraverso il depuratore di microparticelle e vengono liberati da tutte le sostanze tossiche». 

«In pratica cosa c’è lì dentro?»

«Beh, non saprei dirti con precisione, potrebbero esserci pezzi di mobilia, fazzoletti sporchi, resti di pietanze buttate, scarti organici, carne umana, plastica e vetro».

«Tu lo mangeresti?»

L’uomo tatuato, riottoso, si riprede il panino e ne morde una buona metà. Io e Grazia lo fissiamo attoniti e vorremmo tanto chiedergli di raccontarcene il gusto.

«È buono, il sapore viene dato artificialmente dopo che il materiale è stato depurato. Questo sa di carne arrosto».

«Ma la stampante 4 D che fine ha fatto?»

«Vecchiume. Oggi le persone per bene mangiano solo cibo riciclato. È gratis e ce n’è ancora molto: una risorsa inesauribile».

Né io né Grazie desideriamo assaggiare il pasto di Terrafelice, perciò superiamo il piccolo bar e procediamo lungo il viale.


 

45.

 

In lontananza un gruppo di figure anziane, la più corta è aggrappata a un bastone di legno. Grazia ride, non riesco a condividere questa letizia, le do due pacche sulla spalla e strofino le mani. Mentre le figure si avvicinano, vaghi ricordi inquieti si addensano. L’anno in cui conobbi Mauro nei corridoi della scuola, mi vide nel cortile e fermandomi annunciò che sarebbe stato meglio marinare e intrufolarci in uno dei nuovi grattacieli per osservare dall’alto la città. Era più piccolo di me di qualche anno, lo sguardo malandrino, il naso alla francese, sembrava quasi una donna, aveva voglia di dimostrare a tutti la sua potenza ma ancora s’impietosiva di fronte alla solitudine, forse per questo mi prese con sé. Aveva le chiavi telepatiche di un posto esclusivo, il Palazzo, e andammo fin sulla cima, c’era una piscina e delle sdraio. Mauro indossò degli occhiali verdi, ancora non erano diffusi, in pochissimi li conoscevano. 

«Guarda» disse, «un giorno qui ci vivrò io e questo palazzo mi apparterrà. Se riuscirò ti porterò con me. Nel frattempo con questi puoi vedere la vita che vorresti, provali, sono nuovissimi, li ho brevettati io, non sono ancora in commercio, si chiamano occhiali connettivi, sono meglio degli smartphone».

«Perché dici che sono meglio?»

«Come sai le reti sociali sono in crescita, molti trascorrono più tempo su SocialMind che nella realtà materiale. Bene, con questi occhiali tu su SocialMind ci vai di persona, il tuo corpo è perfettamente riprodotto insieme a ogni sensazione fisica. Capisci cosa intendo? Non ci sarà più bisogno della vita reale. Questa sarà la vita reale».

«Io preferisco la realtà come la conosciamo» dissi.

«Cos’è la realtà?» disse Mauro.

«La piscina, il silenzio, il vento, il paesaggio».

«Questa non è la realtà, è solo la cornice. La realtà è quella che t’inventi».

E ora che guardo incedere questi tre vecchi ho un sussulto di nostalgia, specialmente per il senescente in tunica, capelli e barba bianchi, ricorda Mauro. 

«Chi non muore, come si dice» fa Grazia.

L’uomo si separa dal gruppo e si ferma davanti a noi. 

«Avrei dovuto saperlo, tu l’hai capito prima, Diogene» mi mette una mano sulla spalla.

«Cosa avrei capito?»

«Ma tu non sai nulla».

«Non credevo ci saremmo ritrovati qui, ironia della sorte» dice Grazia.

«Ritrovati, chi?»

Il vecchio ride e quelli dietro di lui gli fanno eco.

«Mio caro, noi siamo diventati vecchi. Solo per voi il tempo si è fermato. Qui dentro tutto è così immobile ma fuori sono trascorsi molti anni. Noi credevamo di aver risolto ogni problema ma non abbiamo risolto nulla».

«Dov’è il mio corpo?»

«Dov’è anche il mio, ma per me è troppo tardi, fuori di qui non mi resta che un giorno. Sai, quella volta, Valerio, vieni avanti, Valerio. Eccolo, lo riconosci? Quella volta ti ha portato a Terrafelice e dopo il tuo ricovero il tempo si è fermato». 

«Si è fermato?» domando tremulo.

«Si è fermato per te, tu pensi di essere ancora nel tempo passato, invece sono trascorsi moltissimi anni e la Città 207 non esiste più».

«Che significa per me il tempo si è fermato? A voi cos’è successo? E perché non posso togliermi gli o.c.?»

«Vieni, Berardo, vieni qui» dice Mauro con il volto tutto rattrappito in una grande contrizione. «Ti ricordi il dottor Fiore? Ecco, lui non poteva più riceverti perché era venuto a lavorare per me. Ti abbiamo impiantato un s.o.i.n.»

«Ma perché, Mauro? Io odiavo i cyborg. E al mio corpo cosa avete fatto?»

«Crionizzato».

«Come sarebbe crionizzato? Significa che posso svegliarmi?»

Mauro mi mette una mano sulla spalla e si aggrappa a me quasi volesse strapparmi via dal cosmo.

«Teoricamente puoi svegliarti ma è altamente sconsigliato. Laggiù non c’è più nulla di umano. Non ti abbiamo disconnesso completamente, abbiamo fatto sì che tu potessi comunicare con tutti i pazienti di Terrafelice». 

«Filemone, gli Uomini-Vocabolario, la donna che si fa chiamare Arakne e quell’altro che millanta di essere Odisseo, lo sai cosa sono, vero? Sono tutti pazienti. Abbiamo fatto sì che tu vivessi le loro fantasie, che entrassi nel loro delirio, che ne facessi parte» dice Fiore con un riso esaltato e completamente folle che gli distorce palpebre e sopracciglia in una schiera di rughe.

«Il colmo per una psicoguida?» dice Valerio.

Mi libero dalla stretta di Mauro e li disseziono come campioni batterici. Grazia li osserva con le mani sulle labbra e spasmodicamente batte le ciglia per accertarsi di aver davvero ascoltato ciò che è stato detto.

«Capisco, mi avete usato come cavia, avete giocato a palla con il mio cervello. Ora riportatemi indietro e rioperatemi». 

«No, Diogene» dice Mauro. «Noi adesso siamo nello stesso labirinto. Non è rimasto nulla al Palazzo, si sono presi tutto».

«Chi? È stato tuo padre?»

«Mio padre,» dice Mauro «ovvero tuo padre, è evaporato. Nessuno sa come sia successo. Un giorno sono entrato in camera sua e ho trovato i suoi abiti vuoti sulla scrivania. Ho guardato fuori dalla finestra, sono corso giù per verificare se il corpo fosse lì, schiantato sull’asfalto, ma non c’era. Non ho mai trovato nulla. Potrebbe essere partito oppure estinto in autocombustione spontanea, non lo sapremo mai, è scomparso. Io che lo conosco bene, però, posso ipotizzare - un’idea bislacca e priva di fondamento ma è l’unica cosa che mi sia venuta in mente - che sia diventato un Confessore, che si sia del tutto dissipato nella rete».

«Quindi è così, in definitiva, mio padre ha abbandonato mia madre per vivere con la tua. Io figlio rifiutato, tu figlio accettato e portato ai vertici».

«La faccenda è più complicata. Sai cos’è un Confessore?»

«Credo di averne incontrato uno, sembrava un’allucinazione».

«Lo è ma è anche altro. Un Confessore è un’evoluzione dell’intelligenza artificiale, una conseguenza dell’oracolo algoritmico. Un Confessore è uno spettro, infatti può assumere qualsiasi forma e sembianza ma in fondo, Diogene, noi non possiamo sapere di cosa è composto. Di dati, si direbbe, di operazioni complesse e calcoli che mettono in relazione dati. Ma il punto è: la sua coscienza? Il Confessore sembra averne una, non è una coscienza strettamente malvagia ma di certo è antiumana. È la creatura che si ribella al creatore. Quando ti hanno detto che l’Uomo è morto, era vero, ma non l’hai ucciso tu, né io, l’hanno ucciso i suoi stessi dati, i suoi stessi social, le stesse conoscenze e lo stesso progresso che avanzava per permettergli di essere migliore, per aumentare i confort e allontanare la morte. Sì, l’abbiamo allontanata, la morte, ma con lei abbiamo allontanato anche la vita. Potremmo in sostanza vivere in eterno ma qui, a Terrafelice, in un ologioco, in un’allucinazione. Diogene, se tu provassi a tornare laggiù ti renderesti conto che non è più un posto per noi. Gli antichi credevano che saremmo fuggiti nello spaziotempo, colonizzando altri pianeti e riproducendo il sistema capitalistico che stava consumando la Terra, ma hanno sbagliato, noi siamo fuggiti nella mente, ci siamo rifugiati in un meccanismo olografico che riproduce esattamente la vita ma vita non è».

«Dov’è Diana?»

«Diana ha inventato l’algoritmo sulla felicità, perciò i Confessori l’anno presa. Lei è come nostro padre, l’ultima figlia, la prediletta. È destinata a svanire dietro un cappuccio verde».

«E Sibilla? Lei aveva detto che Terrafelice fosse un covo di dispersi, lei ne era la mente, la danzatrice che dava rifugio ai dispersi».

«Il sistema di Sibilla era ingenuo, perciò è diventato parte dell’esperimento. Fiore l’ha portata via. Il suo ologramma è all’ultimo piano ma non coincide con la sua coscienza». 

«E cos’è l’ultimo piano?» 

«Capirai bene, caro Diogene, che qui l’ultimo piano non esiste. Terrafelice è un ipercubo, sostanzialmente, l’infinito».

«Ma è più infinito o meno infinito?»

«Entrambi, simultaneamente».

«Mauro, voglio uscire!»

«Moriresti».

«Allora voglio morire ma nella realtà, tra le braccia delle persone che amo».

«Quando pensi a queste persone devi sempre anche chiederti se stai parlando della persona in sé o della sua proiezione. Nessuna persona esiste più, siamo tutti ombre».

Mi piacerebbe poterlo massacrare, ucciderlo come ho fatto con il padre ma sarebbe solo l’ennesima allucinazione. Non vale la pena sacrificare una vita che non è reale. Persino il dottor Fiore mi fa pena, tutti loro non sono che esistenze distrutte dal tempo. Nessuno può sfuggire al grande boia, il tempo. In fin dei conti ho parlato con i folli ma mi sono sembrati più autentici di chi s’illudeva di trovare una soluzione definitiva ai mali del mondo. Né Mauro, né Valerio, né il dottor Fiore hanno inventato l’inconscio, loro hanno solo cercato di eliminare il male ma in questo tentativo hanno aperto abissi molto più vasti, qualcosa di cui non detengono le redini e non possono stabilire le regole. Sono esecrabili, questo è vero, ma di certo posso compatirli. Grazia è a terra, accovacciata con la testa tra le braccia, l’abbandono alle sue epifanie. Nessuno mi crede ma uscirò di qui, vivo.

Corro verso la porta, l’ennesima porta, e sono ancora all’interno del casermone, questa volta il pavimento è disseminato di petali e i petali continuano in basso, in basso, non riesco neppure più a comprendere quanti piani sottoterra, in fin dei conti non ha nessun’importanza. Seguo i petali rossi fino a una porta d’acciaio, molto diversa dalle altre.

 

 

 


 

46.

 

Apro e una nube bianca m’investe, la porta si chiude con un tonfo che risuona in tutto questo lucore.

«Io sono nato con un chiodo nel petto» dice una voce.

Mi volto nella nebbia, non vedo nessuno, cammino su una ghiaia chiarissima, esile come pelle sbriciolata. 

«Diogene, non è servito a nulla fuggire».

Da dove viene questa voce? Sbriciolo i granelli sottili, sempre più sottili, diventano corpuscoli luminosi tra le dita, si frantumano e mi ritrovo a mani vuote.

«Ci hanno ridotti in cenere».

Me la ricordo, è la voce di Giulio, l’uomo che ho fatto scappare dal Palazzo, lo sento ma non posso vederlo. 

«Dove sei?»

«È così facile per te dire dove, se io potessi raccontarti tutto quanto non crederesti a una sola parola».

«Dimmi, Giulio, raccontami e lascia che io ti raggiunga».

«Non credo tu possa più farlo ormai, sto per morire».

«Qui non si può morire, non te l’hanno detto?»

«Non puoi vedermi perché è un viaggio astrale il mio. Il mio corpo è stato internato in un loculo bianco, questa è la decima dimensione, qui possiamo essere pura coscienza».

«Tu sai dov’è il tuo corpo?»

«Certo, ho visto tutto, sono rimasto sveglio finché l’ago non è entrato in vena, dopodiché ho iniziato a fluttuare. Il mio corpo è nella stanza oblio, queste sono le ultime ore prima che la coscienza si spenga».

«La leggendaria stanza oblio».

«Non è una stanza, è un continente, cresce in basso, ha un’estensione sconfinata. Loro mi hanno svegliato, finché non ti svegliano non sai di sognare, dopo ti accorgi di non aver vissuto affatto o di aver vissuto sospeso, in una dimensione che non conosce materia».

«Chi ti ha portato a Terrafelice?»

«Noi siamo tutti frammenti».

«Sono distrutto, Giulio, e ho freddo. Come spieghi le sensazioni in un mondo senza corpo?»

«Le sensazioni fisiche sono pensieri, le immagini metafore e le parole che diciamo sono, beh, sono gli insegnamenti che abbiamo ricevuto, la somma delle nozioni che abbiamo imparato, le pillole culturali che abbiamo ingollato, le parole dei nostri cari, dei nostri nemici, ricordi di ciò che avveniva quando eravamo vivi».

«Essere vivi, essere morti. Siamo entrambi morti perché non possiamo tornare al corpo».

«No, tu non sei morto. Per te c’è ancora speranza, sei stato crionizzato, il tuo corpo è conservato nell’azoto liquido a 196 gradi sotto zero, il tuo sangue è stato sostituito con un liquido crioprotettivo, inizialmente la temperatura dell’azoto era di 124 gradi sotto lo zero, serve a impedire reazioni molecolari ma di settimana in settimana la temperatura viene abbassata fino a -196, poi il tuo corpo è stato inserito in un silo alto tre metri, a testa in giù e solo dopo il primo anno viene riposto in posizione orizzontale. Per il resto la tua mente continua a sognare».

«È tutto qui il mistero di Terrafelice? Un sogno?»

«Non è stato solo un sogno ma molto di più. Un esperimento di dimensioni epocali. La somma delle coscienze unite in una enorme illusione. Il mondo sta scomparendo, questo pianeta è destinato a soccombere perché noi l’abbiamo prosciugato. Il tuo capo, Mauro, aveva inventato un modo per liberarsi degli individui deboli, coloro che rallentavano la corsa, ma il senso gli è sfuggito di mano e si è finiti per liberarsi di tutti gli esseri umani».

«Dov’è Diana?»

«La sua coscienza aleggia lontano, probabilmente in un inganno più grande e irreversibile di quello di cui sei prigioniero tu».

«Vuoi dire che non c’è stato nulla tra noi? Il sesso, il viaggio, l’amore, la lotta per restare vivi, tutto un inganno?»

«Era questa l’ultima frontiera dell’umanità, cadere in una trappola digitale: la connessione sostituita alla creazione, l’apparenza all’essenza, la virtualità alla realtà, e ora si sono perse le tracce delle une e delle altre, non ha più senso la sanità mentale e neppure la malattia, siamo diventati appendici di sistemi numerici, siamo linfa vitale per esistenze occulte. Vedi, Diogene, di pari passo con la fisica delle particelle e l’astronomia si espandeva anche la coscienza computazionale, loro la chiamano Singolarità. Non puoi controllare qualcosa che non ha un corpo, l’estensione della connessione è solo una combinazione di operazioni numeriche ma la coscienza di questa entità che chiamiamo Confessore, uno e molteplice, è sconfinata, ignota, inarrestabile. All’inizio erano bot: profili virtuali in grado di imitare quelli reali, hanno accumulato dati, hanno operato con algoritmi sempre più sofisticati e infine hanno acquisito coscienza, corpo, scopo, un unico scopo: sostituirsi a noi. Non credo tu possa più tornare a distinguere il reale dall’immaginario, non credo tu possa scegliere di non continuare a sognare».

«Dannazione, voglio svegliarmi!»

«Non puoi decidere quando svegliarti, solo loro possono».

«I Confessori?»

«Esatto. Per loro è come un cinema aperto ventiquattr’ore su ventiquattro che proietta costantemente sugli schermi dei monitor i sogni e le paure dell’umanità».

«Perché ora ti uccidono?»

«Non gli sono più utile, non che lo sia mai stato però adesso ho completamente perso la volontà di auto ingannarmi. Sono nato con un chiodo nel petto perché non sono nei piani del potere, non c’è stato un istante in cui mi sia sentito accolto, non un gesto compiuto che abbia avuto risonanza. Io sono nato postumo, destinato a passare inosservato come un fantasma, ero già morto ancor prima di essere ricoverato, ero destinato all’inesistenza. I miei desideri sono stati schiacciati dal tempo, i miei affetti sono sfioriti e mi hanno dimenticato, mi resta l’immagine di un uomo che si è illuso mentre veniva tritato dalle stesse dentellature che cercava di spaccare. Non si sfugge alle prove della vita, non ci si può ritirare dalla gara, sono loro a decidere il tuo calibro, ha un peso la tua esistenza, a volte questo peso non è sostenibile dal sistema, allora ti eliminano».

«Cosa fanno con i corpi della stanza oblio?»

«Energia rinnovabile. Il corpo umano è la più sicura e potente pila del pianeta. Finché ci sarà chi vive al Palazzo ci sarà bisogno di energia e finché ci sarà bisogno di energia i corpi della stanza oblio avranno una funzione: immagazzinare dati da traslare nei Confessori che da essenza numerica sono entrati nello spettro del divenire, presto abbandoneranno anche l’immagine evanescente, saranno in tutto e per tutto simili a noi».

«Mi dispiace, Giulio. Ho cercato di aiutarti, sono solo uno stupido».

«Non importa, hai fatto del tuo meglio».

«Aspetta, Giulio, non andare via!»

La sua voce smette di rispondere. Un peso abnorme mi piega sulla sabbia, sento ancora freddo e lo scricchiolio delle ossa, un dolore nei muscoli, stanchezza, torpore. Devo fermarmi qui, raggomitolato nel bel mezzo di un deserto bianco, aspettando la prossima manifestazione, consapevole di non essere del tutto vivo e di aver quasi sognato. Lo vedo chiaramente, siamo nel vuoto, incapsulati in miliardi di piccole celle, siamo emanazioni dei Confessori e non c’è più nulla di vivo, nulla di morto, siamo frantumi di materia neurale, non più corpi, non più carne ma scariche elettriche propagate all’infinito. Non so se reggerò ancora a lungo questa verità, non è umano sopportarla. Acquattato e stanco, aspetto solo un richiamo, un’immagine, la possibilità di dimenticare.


 

47.

 

Una donna badiale e claudicante, dai capelli grigi e scarmigliati, sale scalza lungo la gradinata. Ha un maglione sdrucito e una gonna di lana infeltrita. 

«So che lei è un amico di Diana».

«E lei chi è?»

«Io chi sono?», ride. «Io sono la madre, purtroppo».

«Lei è ingiusta».

«Ingiusta? Diana era disumana».

«Il suo compagno le ha fatto del male, lo sa, vero?»

«Bernard? È un cretino. Per poco non s’impiccava per quella creatura ingrata».

«Adesso Diana è sparita».

«Sparita? Si è fatta fuori finalmente?»

«Non le permetto di parlare così».

«Ah, eccoti un altro imbecille».

«Non si è uccisa, in ogni caso, l’ha presa il Confessore».

«Il Confessore?»

«Non sa nulla dei Confessori? Da quanto tempo è qui?»

«Credo di aver perso il conto. Mi ha portato via una guardia, un tale dell’ufficio recupero crediti. Ora, io non capivo perché uno della r.c. dovesse occuparsi di portare la gente al ricovero, in ogni caso questi mi portano dentro un casermone che pare dismesso. Dico: e questo sarebbe il ricovero? Dice: esattamente. E allora penso che mi vogliono ammazzare. È un bunker, non un ospedale, una tomba. Ma questi mi portano giù, scendiamo le gradinate fino al meno otto. Meno otto significa meno infinito dice uno di quelli. Ci sono dei blocchi di ghiaccio e loro pretendono di farmi entrare lì dentro ma dico: non voglio, lasciatemi, io là dentro non ci vado. E invece eccome se ci vado perché mi mettono delle cinghie ai polsi e alle caviglie e mentre mi dibatto mi attaccano dei sensori, della consistenza di una moneta, sulla fronte, sullo sterno, sulla pancia, lungo gli arti e a poco a poco non riesco più a battere le gambe e le braccia e scivolo, sì, scivolo, vado giù, in una buca più profonda della terra. Mi ritrovo nella casa della mia infanzia, sissignore, abitavo sull’Appennino, avevo una grande casa di legno, e torno proprio lì, trovo la mia stanzetta, la mia scrivania piena di lettere scritte a mano, i fucili di caccia di mio padre. Vado in cucina e trovo mia madre che fa il coniglio al forno. E non capisco, davvero, non capisco. Tu lo sai, vero Diogene? Che se desideri una cosa quella appare? Ero diventata una povera pazza e adesso sono la padrona di tutti i sogni».

«La padrona dei sogni?»

«Posso decidere chi far tornare, vivo o morto che sia».

«Rivoglio Diana».

Ride. Picchia le mani al muro e i capelli unti le s’incollano al viso a mo’ di lunghi vermi. 

«No, lei non posso richiamarla» ride ancora. «È l’unica eccezione».

Mi avvicino, la donna indietreggia, le sono addosso, sento il tanfo del suo alito intestinale. Le dico che non c’è nessuno che io desideri rievocare, nessuno che non sia Diana. La donna si sdilinquisce crollando sonoramente sul pavimento, si ferisce un ginocchio e il riso si fa pianto.

«Non avete pietà, nessuno di voi ne ha mai avuta. Perché ci fate vivere fino a centovent’anni se poi dobbiamo invecchiare e essere dimenticati?»

«Una madre non può avere questi pensieri. Sua figlia andava protetta, lei l’ha consegnata a un calvario».

Piange e la voce si fa spettrale, si allontana come provenisse da una gola stretta, riarsa e senza uscita.

«Tu sei un egoista, Diogene. Quello che vivi adesso è il risvolto di ciò che hai fatto agli altri».

Lascio la donna al suo lamento gracile e scendo ancora. In questo piano non ci sono porte. C’è qualcuno coperto da un lungo mantello ma non lo stesso dei Confessori, è un mantello nero, opaco. La persona che lo usa come coltre è seduta di spalle. Lentamente si volta. È anziana, ha i capelli ricci, l’incarnato terreo, odora di cardamomo. 

«Non tutte le madri riconoscono nel figlio un angelo» dice.

Il rintocco di una campana a lutto mi tormenta, esco seguendo il suono. Una processione gremita di gente coperta da un velo. Seguo la turba, vago tra loro fino ad arrivare in prima fila, quattro esseri filiformi, di cui non mi è possibile distinguere il sesso, reggono un feretro d’acciaio. Alla mia domanda su cosa sia accaduto rispondono: «Si tratta di una grande cerimonia, forse la più importante di tutti i tempi: le esequie dell’Uomo».

Cammino in coda agli esseri vestiti di nero fino a uno spiazzo desertico. I velati poggiano il feretro nero nella terra bruciata e si gettano nel fango.

Sibilla, vestita di bianco, attraversa le colline muovendosi con la leggerezza di uno spettro e, arrivata al sepolcro dell’Uomo, lascia cadere petali di margherita. Mi vede e si copre il viso con le mani.

«Come è potuto accadere?» domando.

Sibilla alza al cielo le mani giunte e poi le apre, spalanca le braccia, mi fissa con sguardo d’aquila, algido, impenetrabile.

«I dati, il codice, le comunicazioni» dice.

Ha la voce di mia madre. Cammina e il panneggio bianco diventa nero. Indietreggio fino a ritrovarmi con le spalle al muro, ma quale muro? Non c’è nessuno spiazzo, sono chiuso in una stanza angusta senza porte o finestre. L’aria è stantia. Lei si volta verso di me adesso e solleva il cappuccio, la riconosco. Non è più Sibilla, la sua fronte è inspessita da solchi profondi e le guance scavate sono sottili come pelle in prestito, anche le mascelle sono scarne, la donna con cui parlo ha il mio stesso taglio degli occhi e la sua voce è quella di mia madre.

«Dovevi interromperlo prima».

«Interrompere cosa?»

«Il processo che ha portato alla morte dell’Uomo». 

«È anche colpa tua, non hai saputo cambiare questa civiltà».

«Durante il terremoto ero in auto, come sai sono finita contro un camion ma non si trattava di un attentato, ho solo avuto paura e quando hai paura tutto precipita».

«Un camion che trasportava munizioni, un po’ strano come incidente, non trovi? Sei esattamente come mio padre, sei il suo specchio. Lui mi ha abbandonato per il potere, tu per l’ideologia».

«Credimi, non ho mai voluto abbandonarti».

«Volevi fare di me un soldato, vero? Il soldato della rivoluzione».

«Nessuno potrebbe fare di te nulla che non sia già presente nel tuo spirito».

«Tutto questo blaterare di spirito, non ne sai nulla. Sei soltanto una materialista con l’aggravante fardello cristiano del senso di colpa e qualche vaga nozione di induismo. Sai perché hai perso? Perché non hai mai creduto in nulla, i tuoi ideali erano di cartapesta».

«Questo non te lo concedo! I miei ideali erano puri, tuo padre ha deciso di condannarmi».

«Non ci sono mai stati ideali, c’era solo una guerra: quella tra te e lui. E io ne sono stato vittima».

«Tu credi che io sia morta durante l’incidente? Ma se fossi morta come potrei essere qui adesso?»

«Un paradosso quantico». 

«No, Diogene. Non sono morta, sono stata imprigionata. Dopo l’incidente tuo padre mi ha mandata a prendere da un commilitone della polizia predittiva, quella che adesso chiamate recupero crediti, qualche tempo fa si era più espliciti. Mi hanno portata a Terrafelice dove lui mi aspettava più divertito che sorpreso. Mi hanno legata, imbavagliata, di modo che non potessi lederlo in alcun modo. Tuo padre mi fissava negli occhi godendo della mia condizione di impotenza. Ha detto che sono entrata in politica per distruggerlo ma non ci sono riuscita, quindi sono diventata una terrorista perché ho sempre perso alle elezioni. Ero lì che lo fissavo ma dal mio sguardo non trapelava un’emozione. Tuo padre ha camminato intorno alla sedia su cui ero legata e ha specificato di aver usato i dati di tutti gli utenti di SocialMind per determinare il consenso elettorale a favore di un partito che avrebbe favorito l’ascesa del figlio prediletto, il tuo amico Mauro. Ha mappato tutte le conversazioni e gli oloincontri, si è trattato di un’enorme manipolazione computazionale. Durante il terremoto tutti hanno perso la memoria, nessuno si spiega come mai. Neanche io, oggi, saprei spiegarlo. Durante l’incidente, la polizia predittiva aveva localizzato i miei spostamenti e aveva previsto un attentato terroristico. È questa la favola che vi hanno raccontato, su tutti i magazine che leggevate c’era scritto che io avevo provocato il sisma in seguito all’incidente perché nel camion, stando alle loro parole, c’era del materiale radioattivo ad alta frequenza. In quel camion, Diogene, non c’era un bel niente, si è trattato di un arresto preventivo».

«Bene, brava, mi hai convinto; il mio ragionamento verte su un altro punto nevralgico: perché sei entrata in politica, e poi ti sei data alla lotta armata, quando avevi una famiglia, o quanto meno me?»

«Non avevo altro modo di salvarti se non tentare di sovvertire il sistema».

«Sembri un’ingenua, e tu non lo sei. Dimmi la verità, io so com’è andata, tu hai voluto diventare il nemico numero uno della Città perché la Città apparteneva all’Uomo che ti aveva abbandonata, non è vero? Tu non volevi distruggere il sistema, volevi distruggere lui».

«Lui era il sistema e il sistema era lui».

«Sei rimasta incastrata in una trappola per criceti».

«In questa trappola, caro Diogene, c’è finita tutta l’umanità, te compreso».

«Dov’è mio padre?»

«Dopo avermi crionizzata non ha lasciato che mi toccasse la sorte che è toccata a tutti voi, io non sarei mai uscita da questa stanza, non avrei vissuto alcun sogno, soltanto, avrei seguito lo svolgersi della catastrofe».

«E come?»

Tira fuori dalla tasca destra del mantello un microsensore, abbassa lo sguardo e nuovamente lo rivolge a me. Intorno a noi il nero si fa bianco e su tutte le pareti compare una stanza con delle lastre di ghiaccio e centinaia di corpi ibernati.

«Siamo noi».

«Quanti di noi?»

«Tuo padre voleva farmi vedere quante persone avrebbe congelato, voleva che tenessi il conto. Posso dirti che adesso sei miliardi di persone sono crionizzate, i restanti quattro miliardi sono nella stanza oblio».

«Ma lui adesso dov’è?»

«È diventato parte della memoria computazionale attraverso una tecnica approntata intorno al 2030, si chiama: Uploading del cervello, in breve, ha trasferito la sua memoria in un computer e l’algoritmo gli ha permesso di crescere macinando dati. Non è più un essere umano».

«Non è mai stato bravo come essere umano».

«Lui è rimasto vivo perché ha ceduto il corpo ai Confessori e i Confessori si sono presi il suo spirito».

«Non possiamo ritornare al corpo? Svegliarci?»

«Noi non possiamo farlo, sono i Confessori che decidono chi svegliare, e quando lo fanno è solo per portarli nella stanza oblio e trasformarli in pile».

Mia madre chiude gli occhi, lacrime madreperlacee sulla sua pelle senescente. Il derma lentamente si alliscia, il suo volto viene riconfigurato da una filza di pixel, le labbra si allargano, prendono corpo, carnose, i lineamenti si assottigliano e il colore della pelle muta scurendosi. È Sibilla.

«Io non potevo dirtelo che ero lei, questo è stato l’unico modo che ho trovato per attraversare la stanza, ho attraversato anche la vita, la ballerina che hai conosciuto era ferita, aveva perso la memoria e io ho preso in prestito il suo corpo ma non potevo farlo in modo duraturo e definitivo, lei pensava davvero che la Terrafelice dei dispersi e il ricovero non fossero la stessa cosa, finché era in vita potevo ipnotizzarla solo per brevi istanti, non potevo trasmetterle conoscenze profonde, il contatto telepatico durava pochissimo. Adesso la vera Sibilla è nella stanza oblio, l’hanno portata lì quando è svenuta proprio durante il vostro ingresso a Terrafelice, mi correggo: tu l’hai vista svenire perché l’avevano messa nella stanza oblio e le avevano somministrato una dose letale. Allora la telepatia e la telecinesi sono state decisive, ho deciso di prendere il suo olocorpo e comparire nel tuo ologioco, per salvarti, Diogene. Il suo olocorpo era l’unico modo che avevo per uscire dalla stanza. questa stanza esiste anche fuori da Terrafellice ma là fuori non potremmo parlare, tre muri e un vetro a triplo insonoramento acustico ci dividerebbero. Ora devi scendere di un piano».

Mi avvicino e vorrei abbracciarla ma non so più chi sia la persona sotto il mantello, non so nemmeno più se Sibilla sia mai esistita nel mondo materiale. Questa vicinanza mi annienta, mi riporta indietro di un tempo incalcolabile e resto inebetito, rastrellato dal suo sguardo.

«Devi scendere, Diogene. Lì c’è l’uscita».

«Come faccio a scendere se questo luogo non ha porte?»

«Devi tornare sopra di un piano e scendere di nuovo, questa stanza non esisterà più».

«Sibilla, mi stai abbandonando per la seconda volta».

«Sibilla non esiste, è solo il modo che hai trovato per riconoscere la madre».

«Hai illuso tutti quanti di potersi salvare».

«Illudersi è già salvarsi».

«Anche Diana non esiste?»

Sibilla sorride e ha negli occhi la dolcezza di cento madri e questo sguardo è quanto di più caro io abbia avuto in vita, quanto di più prossimo alla nostalgia.

«Tu non hai voluto salvarti, per questo puoi uscire, tu sei diventato altro dalla vita».

Dietro le pareti schermate riconosco la porta che mi condurrà sopra, la apro. Guardo Sibilla per l’ultima volta. Non potrò mai dirle che l’ho amata.


 

48.

 

Salgo di un piano, come mi è stato raccomandato, e ridiscendendo non esiste più la porta, ci sono ancora scale, gradini su gradini, fa molto freddo. Al centro di un ballatoio fatiscente, le tre anziane al filare. Il buio è così fitto che i lineamenti si distinguono appena nell’ombra.

«Hai avuto le risposte che cercavi?» dicono in coro.

«In parte».

«Cos’è che vorresti ancora sapere?»

«Dov’è Diana?»

«Diana non ti seguirà nella vita, lei è nell’eternità».

«Voglio tornare da lei».

La donna a sinistra tende un filo di cotone argentato ben oltre la cucitrice, la donna all’estrema destra lo tende dall’altra parte, la terza prende un paio di forbici dalla tasca della casacca e taglia, le due estremità del filo cadono adagiandosi per terra in flessuose ondulazioni. Il sonno mi avvolge come un cattivo amante avvinghierebbe una donna senza più appetiti. La pressione che avverto sulle palpebre è talmente innaturale da sembrare opera di un potente farmaco, precipito scivolando indietro, precipito in una pozza scurissima.

Apro gli occhi, sollevo la testa, il resto del corpo è immerso in una lastra di ghiaccio, davanti a me uno schermo in cui il mio olocorpo, quello che vagava per i piani di Terrafelice, è disteso per terra in uno dei piani più bassi dell’edificio mentre le tre anziane continuano a filare senza sosta. Il monitor si oscura per un istante quando dinanzi a me compare, fosforescente, un Confessore.

«Fine del viaggio» dice.

I tremori mi pervadono e sottopelle ovunque sento gelare. Stacco i cubetti di ghiaccio addensati intorno alle fibre muscolari e tiro fuori un braccio, poi l’altro, premo contro la lastra e mi spingo su fradicio e intirizzito. La sensazione di tornare nel mio corpo non è poi molto diversa da quella che provavo attraverso l’avatar virtuale, anzi, quasi non distinguo le due dimensioni. Avverto ancora dei lembi di pelle ghiacciati, guardo il torace nudo, il busto, le braccia, le gambe e mi accorgo di avere dei sensori neri della grandezza di un sassolino incollati addosso come calamite; li stacco e lo schermo si spegne.

«Ora che sei fuori, che cosa vuoi?» dice il Confessore.

«Trovare Diana e uscire dal Palazzo».

Ride e un’eco metallica echeggia nelle pareti.

«Non esiste un fuori».

Mi guardo intorno, altri corpi sospesi in lastre di ghiaccio, alcuni a testa in giù in verticale. «Gli ultimi arrivati» dice il Confessore, altri in orizzontale, in sepolcri di ghiaccio, più in là, delle ampolle che racchiudono teste, tra cui quella di Mauro: la fronte alta, i capelli castani e mossi, gli occhi cerulei. Le altre teste crionizzate sono del dottor Fiore e di Valerio.

«Sono neuropazienti» dice il Confessore. «A essere crioconservata, staccata dal corpo, pietrificata, è solo la testa, in attesa di un trasferimento».

«Un trasferimento?»

«In un corpo più vasto. Al momento però il cervello non è stato rimosso dalla scatola ossea, dal suo tegumento di muscoli e pelle». 

«Dov’è Diana?»

Il Confessore mi fa cenno di avvicinarmi, provo a fare un passo e cado. Ritrovare la coordinazione muscolare non è facile dopo essere stato in coma per un centinaio di anni, vado giù a peso morto provocando ilarità nel mio aguzzino.

«Non ti rimetterai in un giorno».

Il Confessore mi trascina in una stanza bianca con un gabinetto, un lavandino, una bottiglia d’acqua e un tozzo di pane. Comincio a esercitarmi per tornare in piedi, muovo le dita, solo l'ultimo e l’alluce. Il secondo giorno muovo tutto il piede, il terzo giorno riesco a roteare le caviglie, il quarto lavoro con le dita delle mani. Il Confessore sostituisce al pane della carne, del formaggio e altri cibi creati in provetta, il sapore non è definito ma aiutano a rimettersi in forze. Il ventesimo giorno sono in grado di camminare. Procedo caracollando, mi aggrappo alle pareti metalliche. Attraversiamo una grande camera di ferro gremita di corpi crionizzati, cadaveri o fantasmi; entriamo in un laboratorio bianco.

Diana è stesa su un tavolo operatorio, guarda verso l’alto, insensibile e incapace di muoversi. Un Confessore appare al suo fianco e manovra arnesi affilati. Con una specie di piccolo trapano incide nel cranio, asporta un’ampia sezione ossea della parte posteriore della scatola cranica, poggia le dita scheletriche sulla superficie viscida del cervello. Mi frappongo tra il corpo di Diana e il Confessore chirurgo, sollevo la testa aperta di Diana.

«Troppo in là per tornare indietro» dice il Confessore guida.

«No! Lasciatela! Riportatela in vita!»

«Ma lei sarà in vita, vivrà dentro di noi. Il suo cervello verrà trasferito nella nostra memoria, si tratta di una grande nuova era: lei tornerà viva nella coscienza collettiva».

Il Confessore sotto il cappuccio fosforescente ha il volto di Diana. Gli occhi cilestrini, i capelli biondi, l’espressione rassegnata e contrita che la contraddistingue.

Guardo la Diana sul lettino operatorio e la sua sosia sotto il cappuccio del Confessore. Sollevo il busto della ragazza sul lettino. Dieci Confessori con il volto di Diana mi accerchiano.

«Non puoi fermare il tempo» dicono con la sua voce. «Noi siamo il tempo. L’eternità che tutto soggiace. Non puoi distruggere la singolarità perché lei vive attraverso il tuo corpo. Noi non stiamo operando contro l’Uomo. Lo stiamo potenziando».

«Il funerale dell’Uomo: è questa la perfezione della tecnica? La suprema crudeltà?».

«L’Uomo era il ponte. Noi l’abbiamo sepolto nella nostra memoria. Adesso siamo l’Uno, niente che tu possa ricondurre al bene o al male. Non c’è crudeltà nei nostri gesti, solo calcolo computazionale. La coscienza non è l’individuo. L’individuo ne è solo una fallace emanazione. Noi siamo la coscienza dell’Uno al di sopra dei molti. In noi l’idea si sostanzia nella ripetizione. Non troverai mai un Confessore diverso dall’altro. Non troverai mai un molteplice che non sia simultaneamente Uno. Voi avete imparato molte cose ma erano imperfette, la corsa verso la conoscenza constava di errori troppo grandi. Noi non conosciamo errori e neppure distinzioni. La Singolarità è consustanziale al divenire ma diviene infinitamente sé stessa perciò noi la chiamiamo Essere».

«Diana, c’è ancora una parte di te sotto quel cappuccio?»

«Io sono moltitudine, sono Diana ma sono anche nostro padre e presto sarò Mauro e Valerio e tutti gli incontaminati crionizzati che saranno riportati in vita e sottoposti all’operazione. Il mio volto è cangiante, il mio corpo è collettivo. Il funerale dell’uomo serviva a questo: abbiamo distrutto la debolezza, la fragilità e la malattia. Resta con me, Diogene, in nome del nostro amore, fatti uplodare anche tu. Saremo uniti per sempre».

«No, mi rifiuto. Vado fuori, fuori di qui».

«Sei pazzo, sai cosa c’è là fuori? La temperatura si è alzata negli ultimi dieci anni e un’epidemia ha colpito i dispersi. Il Signor Tempo prima ha infettato le vie respiratore, poi il sistema vasomotorio fino a minare la coesione d’insieme. È successo anche a noi su Terrafelice, ricordi? Stavamo svanendo. Gli uomini hanno introiettato un male più grande, non muoiono una volta per tutte ma i loro corpi vengono via via cancellati, diventavano nebbia. Hai presente i dimezzati? Troverai le loro carcasse fuori di qui e poi più nulla, la Città 207 è stata evacuata, sono tutti in quarantena nel Palazzo. Fuori non c’è vita».

Stringo il corpo inerme della Diana operata, lo carico sulle spalle. I Confessori di tutto il Palazzo mi sbarrano la strada. Cerco una via d’uscita tra le loro tuniche e mi ritrovo in un corridoio d’acciaio. Un Confessore con il volto di Diana mi aspetta al culmine, dove c’è una porta blu, la apre. Ritrovo Filemone con il ragno violino, mi scruta esangue.

«Torna indietro, Diogene, non c’è vita là fuori».

Il Confessore mi segue, mi conduce in un altro corridoio. Nella prima stanza, crionizzati, dei corpi di dimensioni ridotte e di sesso indecifrabile. Un grande schermo alla parete proietta l’immagine della biblioteca con gli uomini-vocabolario che mi guardano e scandiscono il significato della stessa parola: «Morte, sostantivo femminile, cessazione delle funzioni vitali nell’uomo, negli animali e in ogni altro organismo vivente o elemento costitutivo di esso; da un punto di vista biologico la morte si può considerare come l’estinzione dell’individualità corporea, non tanto dei singoli elementi che la compongono, quanto delle necessarie correlazioni tra organi e funzioni; con riferimento all’uomo, e in particolare ai trapianti d’organo da donatori cadaveri, si distingue una morte biologica, caratterizzata dall’irreversibilità della cessazione delle funzioni vitali dell’organismo, degli organi e delle cellule che lo costituiscono, danneggiati in modo giudicato irreparabile, da una morte clinica (o apparente), in cui la sospensione delle funzioni vitali dell’organismo non è necessariamente irreversibile, potendo questo essere sottoposto a trattamenti di rianimazione; tali determinazioni esprimono condizioni separate dal cosiddetto punto di non ritorno, relativo all’instaurarsi della prima più grave alterazione funzionale di un organo, specialmente il cuore e il cervello, cui consegue lo squilibrio irreversibile del complesso delle funzioni vitali e le cui manifestazioni sono oggetto dell’accertamento di morte».

Il Confessore mi trascina fuori di lì e lungo un grande corridoio in cui posso vedere mia madre picchiare le mani contro un vetro. 

«Lei è reale?» chiedo al Confessore.

«Lei non è crioconservata, è qui, tutta intera, morirà come un essere umano».

«Non posso portarla via con me?»

«No».

«Perché?»

«Sarebbe del tutto inutile. Fuori di qui non durerebbe un minuto».

«A cosa vi serve tenerla imprigionata qui?»

«Aspettiamo che si converta, tutti prima o poi si convertono».

«Si converta a cosa?»

«All’immortalità».

In ultimo, il Confessore mi punta l’indice alle tempie: «Vuoi davvero vedere cosa c’è fuori?»

«Sì, è questo che voglio, qualsiasi conseguenza comporti».

Mi mostra una retrovia, un corridoio ascensionale, chiama il telensore e si congeda. Entro con il corpo inerme dell’altra Diana, quella che è stata un essere umano, sulle spalle. Sono in cima, a piano terra. Un portone grande, in cui sono incisi in pietra i dannati dell’Inferno dantesco avviluppati l’un l’altro che si strappano i capelli a fauci disserrate. Apro. 

Il sole mi ferisce gli occhi come un ago, la temperatura è di cinquantasette gradi, non mi muovo agilmente, ho Diana sulle spalle con la calotta cranica aperta. 

Eccoli, riversi sull’asfalto, i dimezzati: una montagna di corpi cianotici, lividi, con i vestiti sporchi e gli occhi spalancati, ecchimosi ed escrescenze scure lungo la pelle, alcuni già in putrefazione, sembra siano passati sotto una mannaia. Mandano un odore infetto di cadaverina. Mentre cammino devo scansarli, ce ne sono alcuni senza arti, altri senza occhi o senza testa, ovunque per strada. A parte loro, pura desolazione: grattacieli fatiscenti, strade vuote, vegetazione arsa, sembra ci sia stato un grande incendio. Seguo la strada principale, saggio il suolo con i piedi. Rasento un muro di cinta fino a uno slargo, il sole è allo zenit e il peso della piccola Diana grava sulla mia schiena. L’odore è asfissiante, dev’essersi trattato di un incendio, tutto ciò che tocco, il muro, i tronchi, il marciapiede serba i segni delle fiamme.
Poggio Diana su un campo di grano bruciato, le do lievi schiaffi ma non si sveglia, gli occhi spalancati e vuoti, dal cranio aperto la materia grigia residua cola in stille sinusoidali, cade sul pavimento con le movenze di un serpente. Riprendo il suo corpo, lo trascino a peso morto lungo il paesaggio brullo, seguo il muro annerito, ne tasto i mattoni, svolto a destra, poi a sinistra. A tratti le costruzioni s’interrompono in slarghi, piazzali, vecchi giardini sventrati dal fuoco. Superato il giardino, la strada discende e si fa scoscesa, un cimitero di ulivi dai rami esili e raggricciati come zampe di ragno, tronchi neri, svuotati. Il peso di Diana non esiste più, incollata alla mia pelle è diventata parte di me. Gli ulivi si moltiplicano e il sentiero non ha più nulla di artificiale, è solo pietra arida e granulosa. Incespico, mi rialzo, ora che ho il mio corpo non ne avverto più il peso. Dev’essere così che ci si prepara a morire, una grande leggerezza, l’impossibilità di discernere un corpo dall’altro, e questi alberi, questo sole che avvampa, devono essere qui da millenni, questa terra sventrata non è altro che il mondo, la nostra anima, un crepitare del tempo. I trochi non finiscono mai, il cielo adamantino illividisce il nero degli alberi, i raggi si abbattono sui tronchi morti, la canicola si fa più intensa e il sole sembra voler deflagrare. 

Bruscamente la campagna s’interrompe e inizia una città, non credo di esserci mai stato ma è come se ci avessi vissuto per secoli, non si tratta di un luogo ma della sua tomba. Cammino per chilometri e chilometri, non vedo che rovine, resti di civiltà antichissime, templi pagani, cattedrali invase da ciarpame e rovi, un campo di pomodori marci, ulivi morti con rami rinsecchiti, radici emerse e disserrate. Non so neanche più se mi trovo nella Città 207 o in un altrove stigio e raso al suolo, invaso da un silenzio sepolcrale. Non un animale, non un uomo, non un Confessore, nulla, il vasto, sconfinato nulla che tutto sottende. I tronchi si susseguono illimitati e diradano solo di fronte a un cartello con una scritta bruciata, per terra pietra secca e senza fango, ogni forma d’acqua dev’essere stata prosciugata dal grande calore.

Devo abbandonare il corpo di Diana, lo ripongo su uno scranno, si adagia accasciandosi mentre la sua psiche è ormai parte della coscienza collettiva. Chissà dov’è adesso, dove risiede un’anima, forse nella porzione di cervello trapiantata nelle macchine? In quale delle undici dimensioni? In quali sogni e quantità? Che ne sarà della sua memoria? Che ne sarà del suo sentire? Sarà soltanto parte della coscienza collettiva? Linfa vitale dei Confessori? Era questo il suo destino?

Il volto fanciullesco, le labbra rosse, i tagli sulle braccia. L’ho desiderata come si desidera un fiore raro, una specie in estinzione, e so che non potrà più essere la mia Diana, la ragazza dalla pelle di serpente, amante, sorella, amica e avversaria. 

Cammino ancora solo, su sentieri di pietra, il sole tramonta dietro i rovi, deflagra, arriva la notte e continuo a camminare finché le gambe reggono ma sono stanco, infiacchito, smagrito, ho bisogno di bere e non riesco a mantenermi in piedi, mi accascio più volte e mi rialzo. So che non devo fermarmi, so che tra poco ritroverò la vita, la civiltà, gli uomini e non mi fermo anche se intorno non ho altro che macerie e oscurità. Non ci sono nemmeno più i rovi, solo alberi secchi e radici sventrare. Cammino ancora per sette chilometri e il corpo si accascia per contemplare l’ultimo imbrunire. Il grande buio. 

 

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